“L’altra figlia” di Annie Ernaux, in bilico fra figure del doppio e non-essere
«Da bambina – è lì l’origine della scrittura? – credevo sempre di essere il doppio di un’altra, una che viveva altrove». Nel cuore di L’altra figlia, (ultimo libro di Annie Ernaux uscito in Italia per L’Orma, con la traduzione dello stesso editore Lorenzo Flabbi) troviamo uno dei “segreti” della genesi della scrittura di questa autrice francese, da poco riscoperta anche nel nostro Paese. Il segreto è una sorella più grande, morta a sei anni, due anni prima della nascita di Annie Ernaux.
L’altra figlia è una lunga lettera, dominata da una poderosa seconda persona singolare, che si rivolge a questa inespugnabile sorellina morta. Tutto prende il via da un frammento di passato: una fotografia dell’angolo della strada di casa, dove Annie a dieci anni sente parlare sua madre con un’amica. Di nascosto, scopre dell’esistenza dell’altra. Ma che tipo di esistenza è? Segretissima – i genitori non ne parleranno mai – esclusiva, un’esistenza nel senso del non-essere.
Eppure è chiaro, lo è stato fin da quando Annie Ernaux era bambina, che questa sorella scomparsa per difterite fosse molto più che indimenticabile in questi genitori taciturni e più stanchi di prima. «In loro eri indistruttibile», scrive.
La casa editrice L’Orma sta rendendo disponibile per il pubblico italiano alcuni titoli particolarmente significativi di Annie Ernaux, rispetto al lavoro sulla memoria e sulla traduzione del ricordo in racconto, in parola. È un percorso autoriale che affonda nella mezza età dell’autrice, in libri nati grazie a lunghissime gestazioni. Se in Il posto (1983, qui 2014) c’era un tentativo di “riparare una famiglia”, ne Gli Anni (2008, qui 2015) – finalista al Premio Strega Europeo 2016 – c’era quello, come dice la Ernaux in un’intervista con Marco Missiroli, di “domare il tempo”. L’altra figlia (2011, 2016) è invece il libro che tenta di dare voce all’ombra.
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La Ernaux prova a scrivere l’assenza, il nulla, la differenza. Innanzitutto la differenza che non conosce deroghe: quella fra i vivi e i morti. Tuttavia, è una differenza che influenza i viventi, al punto che «la vastità della mia vita, ottenuta in eterno a discapito della tua, mi sommerge. Alle mie spalle è tutto innumerevole, le cose viste, sentite, imparate e dimenticate, le donne e gli uomini frequentati, le strade, le sere e le mattine. Mi sento sopraffatta dalla profusione delle immagini». Chiunque abbia letto i suoi libri sa quanto le immagini siano sempre disposte a parlare, siano radice del discorso, scaturigine della Storia narrata e non tanto i suoi residui. Così, si torna all’origine della scrittura.
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Anche in L’altra figlia il lavoro che fanno le immagini è di tipo poietico. Sono fotografie animate quelle che compongono il discorso: dei genitori, della sorella neonata (inizialmente scambiata per sé stessa), delle cugine, della terra della sepoltura, della vecchia drogheria del padre. È qui che Annie Ernaux va a cercare tracce, ricordi. La lingua per dire chi non c’è mai stato è da inventare a partire dalle immagini, anche perché «Nulla di ciò che accade nell’infanzia ha un nome».
Se c’è un recupero, non è la biografia della bambina morta, ma quello di un tempo esistenziale proprio: il ricordo di una crescita, nel confronto silenzioso con una presenza per sempre umbratile – a volte, un pulviscolo. «E naturalmente, devi essermi gironzolata attorno, mi avrai circondata con la tua assenza nel rumore ovattato che avviluppa i primi anni dopo la venuta al mondo». C’è la crescita di una bambina e di una ragazza nel segno di un confronto impossibile, un infinito scarto: «Tu avevi per sempre sei anni e io continuavo la mia avanzata nel mondo con – avrei poi trovato a 20 anni la definizione in una poesia di Éluard – il mio “duro desiderio di durare”. A te era accaduta soltanto la morte».
L’altra figlia è il libro del doppio della scrittrice, della scrittura, della parola, del linguaggio. Il corpo che ha generato la sorella è lo stesso che ha generato lei, e questo non rappresenta una vicinanza, bensì uno scandalo («La morta e la salvata si confondono l’una nell’altra»). Esistere al posto di un’altra persona (come in ogni storia di doppi) insinua il dubbio della sventura, del ritorno del rimosso che significa, come scrive la Ernaux, «una oscura paura» di una vendetta.
«Due mondi - e io vengo dall'altro», scrive Cristina Campo ne Gli imperdonabili: ecco come questa lettera di Annie Ernaux potrebbe essere riassunta in una frase. Non c’è un’epifania in L’altra figlia, anzi ogni rivelazione è tenuta fuori dalla porta. C’è invece uno sprofondare, per tornare su. E tutta la sfida della scrittura sta nel declinare il passaggio dello sguardo (in ombra) fra questi due livelli di esistenza.
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