“Keyla la rossa”, un mondo perduto e un romanzo ritrovato
A ventisei anni dalla morte del Premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer, la casa editrice Adelphi permette di leggere con la traduzione di Marina Morpurgo, l’inedito Keyla la rossa.
Questo breve romanzo, ambientato ai primi del ‘900 tra Varsavia e New York, fu pubblicato a puntate sulla rivista newyorkese «Forverts» in lingua yiddish, tra il 1976 ed il 1977. L’opera, dal titolo Yarmy un Keyle, tuttavia non vide mai l’incontro con il grande pubblico. L’edizione in volume – in lingua inglese – non fu mai stampata e il motivo è da rintracciare nel contenuto dell’opera giudicato oltremodo scabroso. Nel 1978, anno in cui per la prima volta fu un autore yiddish ad aggiudicarsi il premio Nobel, la casa editrice americana Farrar, Straus and Giroux che si occupava di pubblicare le opere dell’autore – tradotte in inglese da Singer stesso insieme al nipote Joseph – preferì dare alle stampe il romanzo Shosha anziché Keyla la rossa. Fu così che questo romanzo, custodito nella forma manoscritta nell’Archivio Singer dell’Harry Ransom center di Austin, insieme al dattiloscritto della traduzione in inglese, rimase a lungo sconosciuto al grande pubblico. Fino a oggi.
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Quarant’anni dopo possiamo finalmente avventurarci in uno dei luoghi tanto cari all’autore, la mitica Varsavia di via Krochmalna e lasciarci trasportare nel mondo di Keyla. Il mondo descritto dall’autore è quello del cibo kosher, degli shtetl dell’Europa orientale, delle sukkah – quelle grandi “come palazzi”, non “piccole e fragili” come quelle americane –, i quartieri ebraici con i mercati, le case di studio hassidiche... insomma tutto quel mondo che i tragici eventi della seconda guerra mondiale hanno spazzato via.
Singer in Keyla la rossa non descrive una realtà idilliaca, osservata con sguardo sognante, bensì racconta una realtà scomoda. Non si abbandona al ricordo malinconico; al contrario descrive nel bene e nel male un mondo che non c’è più. L’autore non ha il timore di far luce su un argomento tutt’altro che edificante: la tratta di prostitute dalla Polonia all’America del Sud a opera dei trafficanti ebrei. La maggior parte dei personaggi che l’autore dipinge in questo romanzo proviene dagli ambienti più cupi e malfamati.
Yermiahu Eliezer Holtzman, conosciuto in via Krochmalna semplicemente come Yarme, dato che «lì non si aveva pazienza per i nomi troppo lunghi», ha un curriculum di tutto rispetto: quattro volte in prigione per furto e tante altre con l’accusa di tratta delle bianche. Keyla invece è un’ex prostituta, dal cuore d’oro ma dal bicchiere facile. Capelli rosso fuoco come l’ardore dei tanti uomini che la desiderano. Bella e volgare, desiderata e disprezzata al contempo, «a ventinove anni è già passata per tre bordelli» ma ora che ha sposato Yarme quella vita non vuole più farla. Eppure il destino che c’è in serbo per lei sembra non lasciarle scampo. «Prima di morire bisogna vivere» l’apostrofa Yarme, il marito malfattore, che l’ama riamato, salvo poi venderla allo spregevole stupratore Max lo Storpio.
Di personaggi negativi è ricca la storia e anche la via Krochmalna che Singer dipinge nei suoi aspetti più scuri. Anche New York, città dalle mille opportunità, si rivela un luogo di sofferenze e privazioni. Singer è un maestro nel descrivere le atmosfere e i luoghi della grande migrazione primo novecentesca che l’autore stesso ha vissuto sulla sua pelle. Le voci, gli odori, i sapori, gli sguardi degli sventurati in cerca di fortuna. Una terra in cui anche i panini hanno il gusto goy. Attorney Street, il Lower East Side, altro non sono che i luoghi dell’esilio, in cui si smarriscono le radici, dove anche le tradizioni religiose perdono la loro forza. È qui che Keyla fugge con Bunem, il giovane figlio del rabbino, pittore e studioso delle sacre scritture. Singer però dipinge dei personaggi a cui la vita non fa sconti e l’oscuro passato di via Krochmalna torna inesorabile a bussare alla loro porta. Buman domanda a Keyla: «Perché continuate a parlare di funerali? Avete appena cominciato a vivere.» Ma la verità è che il sentore di morte non abbandona mai queste figure tormentate, tanto che il finale aperto non lascia al lettore un senso di speranza, piuttosto l’amaro in bocca della rassegnazione.
Oggi abbiamo la possibilità di immergerci nuovamente nelle atmosfere di quel mondo così lontano – per noi lettori del nuovo millennio – ma così vivo nella scrittura di questo grande autore. La realtà di quegli anni, spazzata via dagli orrori dell’Olocausto, Singer la descrive in yiddish, la lingua che caratterizza questo mondo perduto. È grazie a questo idioma, sapientemente padroneggiato dall’autore che la realtà prende vita sulle pagine dei suoi romanzi e racconti. La questione della lingua, nella produzione di Singer, non è cosa di poco conto e gioca un ruolo fondamentale. Le traduzioni in inglese degli originali in yiddish, curate dall’autore stesso, fungono da base per le traduzioni in altre lingue, affinché la vivacità dell’originale giunga, se non intatta, quanto meno preservata.
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Il giovane Bunem, che nel romanzo si guadagna da vivere scrivendo in yiddish le memorie del signor Sugarman, paragona la sua lingua a Keyla, la donna con cui, a parer suo, condivide lo stesso destino: essere «oggetto di disprezzo ma anche di desiderio». Bunem sente «aggredire lo yiddish da ogni parte». Il motivo è presto detto. È la lingua della diaspora, il marchio del ghetto ma è anche una lingua recante al suo interno la vitalità di un popolo che grazie alla sapiente scrittura di Singer vivrà per sempre.
Per la prima foto, copyright: Cassidy Kelley.
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