Intervista a Valentina D’Urbano: una scommessa per il futuro?
Valentina D’Urbano è una delle giovani voci più dinamiche del panorama narrativo italiano contemporaneo e non sono mancate occasioni per parlarne, occupandoci dei suoi romanzi (l’ultimo, Quella vita che ci manca, è uscito per Longanesi lo scorso ottobre). Una voce narrativa spesso cruda ma penetrante e acuta come le trame che tesse, una voce determinata di donna (trent’anni tra pochi giorni) sicura delle proprie scelte, chiara nelle opinioni che esprime e che si offre con schiettezza al confronto.
Come mai ha deciso di ritornare “Alla Fortezza” con Quella vita che ci manca dopo l’interludio di Acquanera?
Perché la Fortezza è il posto dove sono nata e cresciuta e mi mancava. Credo che non avessi ancora chiuso i conti, volevo raccontare un tipo di storia diversa con protagonista una tipologia di famiglia differente ma che si può realmente trovare in quel particolare ambiente sociale.
Secondo alcuni, la maggior parte dei significati e delle intenzioni di un romanzo sono sovrastrutture attribuite dalla critica per avere qualcosa di cui scrivere e il più delle volte uno scrittore affronta la stesura del proprio testo senza progettualità preordinata. Io stessa ponevo la domanda nella recensione a Quella vita che ci manca. Questa mi sembra una buona occasione per dire la sua…
Sono d’accordo a metà. Il libro, ed è Conrad ad affermarlo, è per metà di chi lo scrive e per metà di chi lo legge. E chi lo legge riflette nel libro il proprio vissuto e il proprio background. Per quanto riguarda lo scrivere senza una progettualità preordinata, quello dipende da autore ad autore… Io personalmente non riesco a procedere all’avventura, devo preparare una scaletta, devo sapere dove andrò a parare, anche se in corso d’opera cambio le carte in tavola. Devo tracciare un percorso, poi magari mi scosto ma almeno in partenza devo conoscere la strada che sto per intraprendere.
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La famiglia sembra essere un elemento imprescindibile nelle sue opere. In particolare la figura del padre, spesso assente, mentre dall’altra parte ci sono madri al confine tra equilibrio e dis-equilibrio: che valore ha la famiglia per lei in particolare?
Io credo che ogni autore abbia dei temi che sente con più forza e che riporta nei libri che scrive. Per me sono la famiglia, l’emarginazione, un determinato tipo di solitudine, e sono poi i temi che hanno caratterizzato la mia vita, vissuta in un quartiere periferico e fatto di case occupate. La famiglia è molto importante perché la mia famiglia è stata fondamentale per uscirne e fare il lavoro che sognavo di fare. Ma non saprei dire perché le figure femminili sono più presenti, talvolta peraltro non si tratta nemmeno di figure pienamente salvifiche. A parte la madre di Beatrice nel primo romanzo (Il rumore dei tuoi passi), Onda è una madre terribile, Elsa (Acquanera) invece è una madre buona, una madre completa. Io credo che questo divario tra la presenza del padre e quella della madre sia semplicemente una cosa afferente alla mia femminilità: essendo donna mi ritrovo molto di più nel ruolo della madre, anche se non ho figli. È la mia natura, direi, che mi fa venire più facile descrivere i rapporti tra madre e figli piuttosto che tra padri e figli.
Sono curiosa: da dove nasce il riferimento alle telenovelas da cui i protagonisti di Quella vita che ci manca prendono i loro nomi? Nella rigenerazione dell’archetipo narrativo che ruolo occupano cinema e tv, quanto influenzano la scrittura contemporanea, sia nell’edificazione della trama che dello stile?
La scrittura contemporanea prende molto dalle serie tv, ma questo non è necessariamente un male. Al contrario, a me piace molto e comunque questa contaminazione è un’evoluzione naturale e al contempo inevitabile del linguaggio. A me le serie piacciono molto e ne guardo molte. Le telenovelas andavano molto di moda nell’epoca in cui è ambientato Quella vita che ci manca; ricordo che quando avevo cinque o sei anni, le donne della mia famiglia guardavano Beautiful, Dinasty, che sono state poi tra le prime serie. È evidente che qualcosa è rimasto e si è trasferito nella scrittura, per non parlare del fatto che in determinati contesti sociali, come quello descritto nel romanzo, la loro visione è un vero e proprio riferimento culturale oltre che il passatempo delle casalinghe e delle pensionate.
È possibile, a suo parere, rintracciare un filo conduttore, una definizione, qualcosa che tra venti/trent’anni potrà costituire il canone della letteratura italiana di questa nostra epoca?
Me lo auguro. Nessuno c’è stato a prescindere; ognuno è arrivato a essere considerato importante per la propria epoca. Magari qualcuno di questa epoca c’è già, anche se è ancora poco conosciuto. Anch’io vorrei sapere chi sarà, vorrei arrivare fra trenta/quarant’anni e dire: «Ci avrei scommesso che sarebbe stato studiato nelle antologie!»
E se provassimo a scommettere proprio su Valentina D’Urbano?
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