Intervista a Silvio Muccino. Dal cinema alla letteratura, racconto i trentenni di oggi
Quando eravamo eroi (La nave di Teseo, 2018) segna il debutto come romanziere "solista" di Silvio Muccino, regista, sceneggiatore, attore e già autore, con Carla Vistarini, di Parlami d'amore (Rizzoli, 2006), da cui aveva tratto due anni dopo l'omonimo film, che ne aveva fatto l'idolo delle adolescenti. Oggi Silvio Muccino si presenta come autore di un romanzo tipicamente generazionale, costruito attorno a un quintetto di trentaquattrenni, ex compagni di scuola, che si ritrovano dopo quindici anni.
Negli anni del liceo Alex, Eva, Rodolfo, Melzi e Torquemada avevano costituito un gruppo molto affiatato, unito dalla comune volontà di non conformarsi alle esigenze di un mondo in cui si consideravano come degli alieni, ma dopo la maturità Alex era bruscamente sparito senza dare più notizie, lasciando una ferita aperta che nemmeno lo scorrere del tempo è stato in grado di rimarginare. Eppure, il giorno in cui Alex ricompare e convoca i vecchi amici per un fine settimana nella sua vecchia casa di campagna, la stessa dove, in passato, hanno trascorso momenti felici insieme, nessuno degli altri quattro declina l'invito. La riunione, che Alex ha voluto per comunicare agli altri un cambiamento epocale che sta per avvenire nella sua vita, farà riemergere vecchi amori, rancori, gelosie e rimpianti mai superati del tutto, ma anche la forza indistruttibile della loro amicizia.
Silvio Muccino è venuto a presentare il suo romanzo a Tempo di Libri e prima di un affollatissimo incontro col pubblico ci ha concesso quest’intervista.
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Lei è attore, regista, sceneggiatore e scrittore, quindi è evidente che le piace raccontare delle storie. Ma è più faticoso essere un artista eclettico oppure una persona concentrata su un solo obiettivo?
Dipende da cosa si intende per faticoso... Per me non è faticoso, perché mi permetto la libertà di assecondare un bisogno di espressione, di comunicazione. Ci sono delle storie che hanno bisogno di immagini di celluloide, altre a cui mi piace prestare il volto, ma ci sono anche delle altre storie, spesso quelle più intime, più sentite, che hanno bisogno di una libertà che solo il libro ti consente, perché è esente dai canoni da un'ora e mezza del film e ti permette di comunicare con le persone a un livello diverso, più personale e profondo.
Per me scrivere è stato come approdare a un'isola del tesoro, perché il caos del cinema a volte fa sì che nel corso del passaggio dalla scrittura al set, agli attori, al montaggio, si perda la purezza del racconto. Ci sono troppi filtri. Il libro invece è come una lettera, che parte da me per arrivare a più persone possibili.
Che differenze ci sono nel raccontare una storia nel momento in cui decide di scriverla piuttosto che di farne un film?
La libertà d'espressione. Se questa storia avessi dovuto raccontarla in un film non mi sarei potuto permettere tante cose, per esempio non avrei potuto delineare la vita, il carattere, il passato e le ferite di ogni personaggio come ho fatto nel romanzo. Non avrei potuto spaziare liberamente tra passato, presente, ricordi, nostalgie e proiezioni del futuro, non avrei potuto indagare la loro anima in questo modo. Mi sarei dovuto attenere a una concatenazione di eventi, a una narrazione più pulita.
Per questo, quando mi chiedono se ne farò un film la mia risposta più sincera è "non lo so", perché non so se sarei in grado di tradurlo in immagini, perché questa storia ha la sua peculiarità più forte nel modo di delineare l'anima dei personaggi, mentre in un film si predilige sempre e comunque l'azione, la battuta.
In effetti questa storia, oltre a essere molto intimista, ha un impianto forse più teatrale che cinematografico, visto che quasi tutto avviene in un ambiente abbastanza ristretto.
Sì, ma al tempo stesso la letteratura ti permette di evadere da quell'ambiente, seguendo la voce dei pensieri espressi dai personaggi, che invece ti riportano quindici anni indietro. È per questo che questa storia è diventata un romanzo.
I personaggi sono suoi coetanei. Ce n'è uno in cui potrebbe identificarsi di più oppure c'è qualcosa di suo un po' in tutti? Ha una predilezione particolare?
Di sicuro c'è qualcosa di mio un po' in tutti. Probabilmente io, che ho un debole per i perdenti, i sofferenti, i personaggi più dolenti, credo di essere più legato senz'altro a Rodolfo, che è quello che forse si relaziona nel modo meno costruttivo col suo dolore e non ha la capacità di farne qualcosa, lo subisce e basta. Non sembra in grado di riprendere in mano le redini della sua vita.
Tutti questi personaggi sono accomunati dal fatto di non avere genitori o avere pessimi rapporti con loro, per cui ne esce una visione un po' cattiva della generazione precedente. Sono stati davvero così pessimi i genitori dei trentenni di oggi? Dipende forse da loro una parte dell'apparente fragilità dei loro figli?
Io sono partito da un altro punto di vista, che non stava nel giudicare la responsabilità positiva o negativa del genitore, ma piuttosto nel fotografare una realtà in cui, anche a trent'anni, molti figli non riescono a tagliare il loro cordone ombelicale. Li ho dovuti definire in questo modo perché, essendo questo un romanzo che parla di trasformazione e di crescita, il primo passo per diventare adulti è passare da figlio a non-figlio, a persona autonoma. Non intendevo stigmatizzare il ruolo dei genitori. La madre di Alex, per esempio, era una bella figura, ma la sua scomparsa simboleggia proprio la possibilità per Alex di trovare se stesso al di là della dimensione familiare: finché si rimane in un rapporto di dipendenza dai genitori non ci si può realizzare come uomini e donne.
Lei si sente abbastanza staccato dai suoi genitori? Ha un buon rapporto con loro?
Io penso di sì. Ognuno di noi ha fatto le sue scelte, viviamo in modi diversi ma io voglio bene alla mia famiglia.
Poco tempo fa l'ho vista nel film The place e mi è rimasta una curiosità molto cinematografica. Visto che lei è sia regista che attore, quando recita che rapporto ha con chi la dirige? Non ha la tentazione di dire la sua sul lavoro del regista?
Fare l'attore è un bellissimo lavoro, del tutto diverso dal fare il regista o lo scrittore, perché senti che la responsabilità del racconto non è sulle tue spalle: tu però hai quella del personaggio ed è di lui che ti devi preoccupare. Paolo Genovese, il regista di The place, per me è oggi uno dei migliori registi italiani.
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I suoi progetti futuri spaziano quindi in tutte le direzioni?
Io non amo fare tanti progetti, non sono una persona bulimica per quanto riguarda il lavoro e ho un atteggiamento abbastanza assoluto in quello che faccio. Adesso il mio progetto è accompagnare questo libro e vedere come va, sono molto curioso.
E poi il riscontro del successo di un libro è molto più concreto e immediato di quello di un film, se l'autore si presenta ai lettori ed entra in contatto con loro, cosa che non accade a un regista, a meno che non s'infili in un cinema in incognito.
È vero, questa è davvero la cosa che mi sta piacendo di più in assoluto: parlare del mio libro con i lettori e i giornalisti.
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Per la prima foto, copyright: Nadine Shaabana.
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