Intervista a Roberto Plevano, vincitore del Premio Neri Pozza 2015
Il vincitore del Premio Neri Pozza 2015 è stato annunciato lo scorso 6 ottobre durante una serata a Palazzo Cusani a Milano. Si tratta di Roberto Plevano con il romanzo Marca gioiosa.
Vicentino, classe 1960, Plevano ha una laurea in Filosofia, conseguita all’università di Pavia, e una Licence in Mediaeval Studies, rilasciata dal Pontifical Institute of Mediaeval Studies dell’Università di Toronto. Attualmente insegna Storia e Filosofia presso un Liceo italiano e collabora all’edizione critica delle opere di Giovanni Duns Scoto.
Qual è la genesi del suo romanzo Marca gioiosa? In quanto tempo l’ha scritto?
Ho cominciato a pensare a una vicenda di fiction ambientata nella Marca veronese tra il 2007 e il 2008, ho terminato il tutto nella tarda primavera di quest’anno. La mia formazione di storico e il lavoro di insegnante hanno facilitato la costruzione di un contesto almeno plausibile, se non realistico, evitando il maniacale dettaglio. Ho utilizzato fonti storiche primarie: cronache in latino dell’epoca e documenti di archivio. Alcuni dei personaggi hanno nomi di personaggi storici, come è il caso del signore Ezzelino da Romano, mentre il protagonista che parla in prima persona, Amalrico, è totalmente inventato. Il romanzo si apre con la fuga del giovane Amalrico dalla Provenza in Nord Italia: sul piano tematico, qui c’è l’enorme questione della diffusione della lirica provenzale in Italia nel XII e XIII secolo, che oggi è perlopiù materia di specialisti, e invece è un fattore importante, accanto alla poesia religiosa, nella nascita della voce della poesia volgare in Italia. Le origini della lingua che parliamo insomma. Oggi purtroppo la poesia è la Cenerentola della letteratura. Nel mio romanzo ho voluto fare un omaggio esplicito a Fernando Bandini, poeta vicentino, spero che non si rivolti nella tomba.
Perché questo titolo?
Il titolo Marca gioiosa è arrivato a romanzo già finito. Iniziando, avevo in mente una certa storia, ma non sapevo che cosa ne sarebbe uscito. A prima stesura finita, mi sono accorto che l’oggetto principale del libro è questa parte d’Italia – corrispondente grossomodo all’attuale Veneto di terra – nella congiuntura storica del XIII secolo, nota allora come Marca veronese (o trevigiana): le città, la terra, gli uomini. Un po’ come, si parva licet, la Russia è la protagonista di Guerra e pace: nel titolo in russo si può leggere la medesima parola come “pace” oppure “mondo”. Marca gioiosa oggi indica invece la sola provincia di Treviso. Il titolo del romanzo è ironico, dal momento che la storia di quel periodo ci consegna un panorama di conflitti spaventosi. A mia conoscenza, l’espressione precisa gioiosaMarca ricorre la prima volta nel poema cavalleresco L’Entrée d’Espagne, scritto in una specie di franco-veneto nei primi decenni del Trecento: (v. 10976) En la joiose Marche del cortois Trivixan.
Il titolo di lavoro che ha accompagnato la stesura è invece un versetto di un libro profetico, che riflette il destino di tormenti dei protagonisti: «Non c’è pace per gli empi»… Magari sarà impiegato in un sequel, se il mio libro incontrerà apprezzamento. In Morte nel pomeriggio Hemingway scrive: «Madame, all stories, if continued far enough, end in death, and he is no true-story teller who would keep that from you», in italiano: «Tutte le storie, se proseguite abbastanza, finiscono con la morte». Ecco, io credo che chiunque si accinga a scrivere un testo di un qualche respiro con pretese di realismo, non possa dimenticare questo sfondo.
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Che cosa rappresenta per lei la scrittura?
È difficile rispondere in sintesi. Prima di arrivare alla narrativa ho pubblicato alcuni articoli su temi di filosofia medioevale. Credo che di fondo ci sia un’esigenza comunicativa. Bufalino l’ha detto bene: «Gli scrittori sono come piccioni viaggiatori, che portano sotto l’ala un messaggio che ignorano». Si scrive per farsi leggere, la stessa parola pubblicare vuol dire rendere pubblico, con tutta la responsabilità che questo atto comporta. Scrivere, pubblicare, riguarda sempre, in molti sensi, una comunità, mai una sola persona; di più, costruisce e circoscrive una comunità: il libro crea il suo pubblico, e questo processo non è controllabile dall’autore, che non sa quanta parte di se stessi i lettori scopriranno leggendo il suo libro. Scrivere forse significa che si vuole non essere soli, e trattare insieme – in due o in una folla, non importa – le cose importanti, definisce l’esperienza umana.
Nel momento in cui hanno dichiarato la sua vittoria al Premio Neri Pozza, quali sono stati i primi pensieri?
Ho pensato che era una cosa incredibile, così lontana dalla vita quotidiana. E poi… mi sono commosso. Anni di lavoro oscuro, notturno, solitario, in cui il tarlo del dubbio lavora continuamente – Che cosa sto facendo? A quale stravaganza sto consegnando la cosa più preziosa che ho, il tempo? Ha un qualche valore quello che scrivo? Qual è la mia malattia? (perché chi scrive troppo soffre di una sottile patologia, non raccontiamocela) –, hanno ricevuto una specie di riscatto. È più di quanto si possa chiedere alla vita. Non tanto la vittoria, quanto l’essere stato scelto tra i finalisti mi ha fatto capire che quello che ho scritto ha un valore, dedicarvici del tempo non è stato inutile. Vincere tuttavia è stato effetto di un concorso di circostanze – gusti personali dei giurati, programmazione editoriale di Neri Pozza, ecc. – in cui il mio romanzo ha giocato una parte assai limitata, mi creda. Tutti i finalisti, per il fatto di essere arrivati fin lì, letti e selezionati, erano ugualmente meritevoli del premio, e tutti dovrebbero avere la consapevolezza – e l’orgoglio – che quello che hanno fatto rimarrà e non sarà tolto via. Non ci sono sconfitti a un concorso letterario.
Crede che il romanzo storico possa avere ancora oggi qualcosa da dire ai lettori sull’attualità?
Non soltanto oggi, sempre. Ma restando all’oggi, nella congiuntura storica nella quale ci troviamo immersi, che è di cambiamento epocale – basti pensare a quanto accade nel Mediterraneo, nelle terre a poche centinaia di chilometri da casa nostra –, è importante riandare alle ragioni storiche di formazione dei luoghi e delle civiltà, che sono sempre incontri, scontri, disseminazioni, germogli, scambi di differenze umane. E poi c’è la storia del potere, che è il tentativo di dare forma stabile al passare degli uomini, e rilevanza a se stessi e ai propri interessi, con l’uso della persuasione e della forza. Il racconto, che riflette l’esperienza in forma organica, consente di acquisire gli strumenti per pensare a chi siamo, a che cosa siamo diventati. Il romanzo storico è finzione, naturalmente, ma se è fatto bene, illustra vivamente verità storiche altrimenti ricavabili soltanto da un paziente studio di fonti e documenti, e aggiunge realtà alle nostre rappresentazioni.
Quando leggeremo il suo romanzo per i tipi di Neri Pozza?
È stato strano rispondere a domande su un romanzo “fantasma”, che soltanto i giurati del Premio e pochi altri per ora conoscono. Spero di essere all’altezza delle aspettative, le biblioteche sono piene di opere neglette ai concorsi letterari che col tempo si sono rivelate più solide delle acclamate vincitrici. Mi sono divertito a scrivere Marca gioiosa, ma non ho mai veramente pensato al lettore destinatario. Come può uno scrittore conoscerlo prima che sia appunto il lettore del suo lavoro? Quanto alla pubblicazione, credo che sia questione di pochissimi mesi, a questo punto non dipende da me.
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