Intervista a Roberto Casati, vincitore del Premio Itas del libro di Montagna 2018
TRENTO – Con La lezione del freddo (Einaudi) Roberto Casati si è aggiudicato il Premio Itas del libro di montagna 2018 per la sezione “narrativa”. Durante la serata di premiazione abbiamo avuto l’occasione di intervistare tutti i vincitori. Partiamo proprio da Roberto Casati, al quale il premio è stato consegnato da Paolo Cognetti che, con Le otto montagne, ha vinto l’edizione dello scorso anno. Nel suo libro Casati racconta quello che ha imparato dal freddo durante un anno accademico trascorso con la famiglia – sua moglie Bea, le figlie Ninni e Anouche e il cagnolino Blacky – ad Hanover, nel New Hampshire, sulla costa est degli Stati Uniti, un luogo in cui, durante i lunghi mesi invernali, la temperatura è costantemente parecchi gradi sottozero.
Quando a gennaio ho recensito La lezione del freddo ho scritto che si tratta di un libro che “ha il sapore di un testamento”.
Anche se il riscaldamento globale non è il mio ambito di ricerca, c’è una cosa che vorrei dire, visto che ne ho l’opportunità. Io sono un cittadino informato e ho degli strumenti per informarmi perché ho accesso ad alcune fonti qualificate. Sulla questione del cambiamento climatico, che è una questione tossica dal punto di vista del dibattito pubblico, c’è un’enorme ambiguità nei media, perché si tende a pensare che il pensiero critico consista nella possibilità di criticare qualsiasi opinione o fatto che ci viene presentato, ma in realtà il vero pensiero critico sta nell’avere una metodologia per capire la qualità delle fonti con cui si lavora. Tutti i governi del mondo hanno pagato per decine di anni un panel intergovernativo di scienziati che ha lavorato sulla questione del cambiamento climatico, non per dare un’opinione ma per fornire un consenso.
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Qual è il risultato di queste ricerche?
Il consenso dice che c’è il riscaldamento climatico e, dal mio punto di vista, la questione è chiusa. Per questo trovo che sia incredibile che nei media ogni due per tre sbarchino dal nulla delle persone che negano lo stato dei fatti. “Come fa ad esserci il riscaldamento climatico con le nevicate dell’ultimo anno”, dicono. Questo tipo di dibattito è in uno stato pietoso, perché non si è capito cos’è il pensiero critico. Questa è una cosa che mi dà molto fastidio come cittadino, prima che come ricercatore. Credo che sia fondamentale capire il ruolo della scienza nel dibattito pubblico.
In tutto ciò come si configura La lezione del freddo?
A me interessava dare un contributo diverso rispetto a quello scientifico: volevo raccontare quanto è importante il freddo e cosa vuol dire vivere un freddo quotidiano, con la consapevolezza che in alcune regioni del mondo questo freddo sparirà. Poi, magari, quando questo accadrà, saremo tutti contenti. Il problema politico del freddo è evidente: oggi a Parigi si sta molto meglio rispetto a come si stava dieci anni fa. Lo stesso in Inghilterra, in Canada o in Scandinavia. A noi che decidiamo, che facciamo il bello e il cattivo tempo su scala globale, va anche bene il riscaldamento globale perché in Europa e nel Nord America si sta meglio. Questo è un problema al quale secondo me non si pensa abbastanza. C’è una difficoltà nel dibattito pubblico che è evidente, ma c’è anche un’indifferenza totale verso il problema, un’indifferenza che dipende dal fatto che le condizioni di vita nel nord del mondo stanno migliorando per il cambiamento climatico. Il livello dell’acqua si dovrebbe alzare in Olanda di un metro e mezzo per farci capire come stanno andando le cose.
C’è un altro problema che mette in luce, un problema che riguarda la abitudinarietà e la paura dell’ignoto. Quante volte, infatti, accettiamo uno stile di vita senza aver tentato esperimenti alternativi? si chiede nel libro.
Quando Bonatti andava in montagna scopriva un mondo diverso e scoprire un mondo diverso ci permette di scoprire qualcosa di più su noi stessi. La fortuna di vivere in un mondo diverso ci fa capire che molte cose che diamo per scontate in realtà non lo sono. E non parlo solo del consumo energetico, dello stile di vita. Perché, per esempio, spendiamo la parte migliore del nostro tempo in ufficio? Negli Stati Uniti mi alzavo prestissimo la mattina, lavoravo fino a mezzogiorno, l’una, e poi dedicavo l’intero pomeriggio a quello che volevo. Non c’è alcuna ragione per lavorare più di otto ore quando sei pagato per lavorare otto ore. Abbiamo fatto in America un esperimento di vita, una specie di vita dei boschi, alla Thoreaux, anche se in versione light.
Sullo sfondo della storia ci sono alcune critiche nei confronti della società contemporanea, una società impaziente, votata all’ottimizzazione, all’asciuttezza.
La vita è estremamente ridondante, abbiamo bisogno di sistemi che sopravvivono in situazioni estreme. Abbiamo, per esempio, una dozzina di modi per capire la distanza che ci separa da un oggetto. Invece la società tende a parcellizzare tutto, compreso il nostro tempo. Prendiamo Facebook, per esempio, che richiede una parcellizzazione della nostra giornata che è completamente incompatibile con una forma di vita normale. Non si può vivere solo negli interstizi lasciati liberi tra una chiamata e l’altra dei tuoi compagni di social network. Certo, con la famiglia è difficile staccarsi dal cellulare, ma secondo me vale la pena lottare.
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È un lettore di libri sulla montagna?
Certo. Trovo che i libri di montagna siano un caso di epica moderna, narrazioni in cui l’essere umano si mette in una situazione estrema e scopre di avere delle risorse che non sapeva di avere. In una situazione estrema finisci per dover rendere esplicite delle cose che davi per scontate. Tutta l’epica è bellissima perché ti permette di scoprire degli aspetti della natura umana che non potevi conoscere altrimenti.
Quindi è questo che spinge sempre più persone verso questo genere di libri?
Credo proprio di sì, ti permettono di scoprire, con l’esempio, risorse a cui non avevi pensato.
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