Intervista a Martina Testa, editor di Edizioni SUR
In una realtà editoriale come quella italiana, nella quale le fusioni fra i protagonisti aumentano (si pensi al matrimonio fra Mondadori e Rizzoli) e la concentrazione di potere rappresenta una possibile soluzione per sopravvivere, quale può essere il ruolo dell’editoria indipendente? Non c’è il rischio di inseguire chimere che posticipano l’eutanasia già in corso?
Ovviamente una certa dose di idealismo è necessaria. L’editoria libraria è in crisi e non c’è molto che mi fa credere che la situazione migliorerà. Sono abbastanza rassegnata alla drastica contrazione del numero dei lettori, io stessa leggo molto meno libri oggi di quanto facessi 15 o 20 anni fa: internet offre una quantità immensa di materiali culturali e di intrattenimento accessibili con enorme facilità; la soglia di attenzione nella fruizione di questi materiali si è abbassata; e insomma, il tempo che si dedica a stare seduti con un libro sotto gli occhi è sempre meno. Ci sta. Detto questo, non credo che il libro cartaceo sia destinato a scomparire totalmente; solo che l’editoria letteraria (quella di cui mi occupo io) ridurrà molto il suo giro di affari e la sua rilevanza.
Il mio idealismo consiste nello sperare che sopravvivano i migliori: che i “lettori forti” che continueranno a esistere premino con i loro acquisti gli editori che lavorano con più cura e propongono contenuti più interessanti, rispetto a quelli che smerciano prodotti paraculi e dozzinali. Vogliamo dire che il ruolo dell’editoria indipendente sarà appunto quello di proporre contenuti più interessanti, voci più originali, testi più anticonvenzionali, rispetto alle grandi case editrici che pubblicano solo carta straccia? Mi sembra una generalizzazione ingiusta. Il ruolo dell’editore per me è sempre lo stesso: immettere sul mercato cibo per la mente di buona qualità: questo ruolo ci sono grandi editori che lo svolgono bene e grandi editori che lo svolgono male, editori indipendenti che lo svolgono bene ed editori indipendenti che lo svolgono male.
È vero però che magari in un momento di crisi un grosso gruppo editoriale che lavora con logiche di impresa più che in base a una missione culturale corre meno rischi e cerca di capitalizzare sulle cose che già funzionano; quindi un editor che lavori in uno di quei gruppi avrà le mani più legate rispetto all’editor che lavora per un indipendente, con budget minori e quindi aspettative di rientro minori. Per intenderci: per un editore indipendente, 2500 copie vendute di un titolo possono bastare a ripagare le spese; per un grande editore, 2500 copie sono un flop. Insomma: a un piccolo-medio editore basta costruirsi un pubblico di lettori anche non vastissimo ma fedele: quindi, se lavora bene, può pubblicare cose meno mainstream, meno “facili”, dall’appeal commerciale meno scontato, e farsi tornare comunque i conti. È semplicemente questa attività di “resistenza”, a livello economico e culturale, quella a cui punto nel mio lavoro per un editore indipendente come SUR.
Non le chiederò che cosa ha rappresentato minimum fax nella sua vita lavorativa, mi piacerebbe però che raccontasse ai nostri lettori che cosa porterà con sé di minimum fax nei suoi progetti lavorativi futuri.
Porterò lo spirito con cui lavoravo a minimum fax, che è lo stesso con cui lavoro a SUR e con cui spero di lavorare sempre: costruire un progetto culturale valido, realizzato con grande cura, scambiando idee liberamente e alla pari con persone che stimo e a cui voglio bene.
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Trovare un testo pubblicabile è forse simile all’empatia, la quale dona significato ai sentimenti altrui, perché in qualche modo ci si riconosce, troviamo nelle parole e nelle frasi ciò che si avvicina al nostro senso della bellezza. Che cosa è bello per lei quando pensa alla contemporaneità letteraria?
Cioè cosa trovo bello in un testo letterario? L’assenza di narcisismo. La sensazione che l’autore si sia sforzato di comunicare in maniera chiara quello che aveva in testa (pensieri, immagini o storia che fosse), la sensazione che non abbia solo dato voce alla sua meravigliosa, ricchissima interiorità, ma che abbia voluto costruire un dialogo con chi lo legge. La generosità che c’è in questo.
E poi trovo molto bella anche l’imprevedibilità, la capacità di sorprendere il lettore: con la scelta del materiale e del punto di vista, la costruzione narrativa, l’uso della lingua.
All’inizio de La versione di Barney si legge: «Tutta colpa di Terry. È lui il mio sassolino nella scarpa. E se proprio devo essere sincero, è per togliermelo che ho deciso di cacciarmi in questo casino, cioè di raccontare la vera storia della mia vita dissipata». Un incipit che scatena la curiosità del lettore. Che cosa deve esserci all’inizio di una storia per costringerla a continuare nella lettura?
Tendenzialmente, NON la luce che filtra dalle tapparelle abbassate o il protagonista che si sveglia.
Tendenzialmente, un’immagine concreta: mi piace vedere una scena, più che ascoltare una premessa; assistere a qualcosa che sta accadendo, con elementi sufficienti a visualizzare bene la cosa senza sentirmi troppo spiazzata, ma senza che mi siano date subito tutte le coordinate per interpretarla.
Dopo il giovanilismo degli esordi letterari o il porno soft delle varie sfumature o i richiami nordici dei thriller, come si racconterà il 2014-2015 letterario fra qualche anno?
Che domande... Ovviamente verrà ricordato nei secoli dei secoli come l’anno in cui ha esordito la leggendaria collana BIG SUR, curata da me e dal mio collega Dario Matrone.
Quale è stata la più bella soddisfazione lavorativa che ha vissuto negli ultimi tempi?
Il successo in Italia di Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan. Quando ho acquisito i diritti del libro in casa editrice l’avevo letto solo io, non avevo l’opinione di altri colleghi a suffragare il mio entusiasmo. Il libro era uscito da poco negli Stati Uniti e mi pare fosse stato venduto, all’epoca, solo in Inghilterra. Non aveva ancora vinto il premio Pulitzer né era ancora diventato un caso letterario. Era una scommessa e si è rivelata vincente: nessun altro libro scelto da me ha mai trovato altrettanti lettori. Una volta tanto, mi è riuscito di fare quello che vorrei fare sempre, portare un libro bello all’attenzione del maggior numero possibile di persone.
Di recente è stata messa in vendita a Long Island la villa in cui Francis Scott Fitzgerald scrisse Il grande Gatsby, se potesse trascorrere un anno sabbatico nella residenza di qualche noto scrittore, chi sceglierebbe e per quale ragione?
La casa di Nicola Lagioia, che è più grande e più vicina al centro di Roma rispetto a casa mia, e il suo studio pieno di libri mi incute un tale rispetto che lì dentro non sarei in grado di cazzeggiare e perdere tempo come faccio nel mio salotto. (Però Nicola dovrebbe portarsi via il gatto perché non amo gli animali).
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