Il vortice del pensiero. “L’autoritratto in blu” di Noémi Lefebvre
Per i tipi della casa editrice indipendente pordenonese Safarà è stato da poco pubblicato L’autoritratto in blu, della scrittrice, politologa e musicologa lionese Noémi Lefebvre, nella traduzione di Susanna Spero: già a partire dal titolo è possibile desumere che la voce narrante sarà in prima persona e le vicende saranno, dunque, presentate attraverso il punto di vista d’un personaggio interno alle vicende e, anzi, ampiamente accostabile alla figura dell’autrice reale. Il filtro del racconto è blu, ha il colore della tristezza e della malinconia, di chi manca «fondamentalmente di serenità» e «mugghia alla luna»: non però a guisa di lupo, romantico e ramingo, ma come una prosaica, surreale e inaspettata «mucca», una «stupida muccona», il cui «orrendo verso bovino» squarcia il cielo durante una traversata aerea Berlino-Parigi.
A partire dalla prima pagina del romanzo si entra immediatamente nella mente dell’irrisolta protagonista: il monologo interiore pascola senza meta e si nutre del bianco della pagina permettendo al lettore di cogliere con evidenza i caratteri di questo io-pensante, vorticoso e strabordante, tanto nei pensieri quanto nella loro emanazione, dal momento che, nell’arco di pochi istanti, rammenta di aver «rintronato» e, addirittura, «letteralmente ammazzato […] con un mucchio di parole» un malcapitato pianista.
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Tra una riga e l’altra, s’insinua il tema della musica: dal riferimento al «calmo mormorio di un concertino per piano di Mozart» nel quale la donna si sarebbe potuta lasciare avvolgere evitando di scimmiottare gli urbani ma affettati modi di una conversazione indiscreta; al «secondo movimento del concerto in do maggiore di Beethoven», sul quale lei stessa, «del tutto priva di pudore» – se non si fosse frenata prima, per fortuna – avrebbe sciorinato preziosissimi insegnamenti da «masterclass».
Al di là di questi due grandissimi nomi, a farla da padrone è, però, l’altrettanto eccelso Arnold Schönberg (1874-1951), compositore viennese di famiglia ebraica obbligato a causa delle persecuzioni antisemitiche a fuggire negli Stati Uniti d’America: la sua «memoria viva […] fissata sulla tela» dell’Autoritratto in blu, tra alberi neri nella stagione invernale e «blended whisky on the rocks»ispira, informa e ossessiona la produzione artistica del «virtuoso pianista», che si cimenta nella trascrizione d’una «frase […] completamente inaudita» nata dai legami segreti che la musica e la poesia istituiscono fra le cose mute.
Figlio di queste magiche corrispondenze prodotte dalla penna di Noémi Lefebvre, L’autoritratto in blu si caratterizza per l’originalità dello stile, che ricorda una partitura musicale: non di quelle classiche, grandiose e solenni, s’intende; ma di quelle dodecafoniche in cui impera la cosiddetta «emancipazione della dissonanza», la stonatura eletta a forma, cristallizzata in letteratura.
In questa vorticosa sinfonia della mente i pensieri si susseguono non tanto per legami logici, quanto per somiglianze foniche e associazioni d’immagine. A livello retorico di significato prevalgono analogie inattese, intense similitudini («La spontaneità del mio non-pensiero […] mi ha attraversata come una baionetta») che spesso generano accostamenti tra la protagonista e il mondo animale: il «bestiario» di Noémi Lefebvre varia dalla già citata mucca, all’agnello («non riuscivo a smettere di tremare […] come un agnello malato»), ai serpenti («Ho attorcigliato le gambe come serpenti»), ai salmoni («a mia sorella non serve risalire, come il salmone il fiume, verso le sue origini fetali»).
Ancora più frequenti sono le iterazioni, sulle quali si regge la trama sonora del romanzo: i continui richiami rendono in maniera più realistica lo scorrere dei pensieri e conferiscono spessore alla pagina, in tutto e per tutto simile a uno spartito in cui ricorrono temi, accordi, ostinati e sottofondi.
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I quattro punti sui quali si regge l’esile ma palpitante romanzo – monologo interiore, musica, riferimenti colti, bestialità – non possono non rimandare a un precedente illustre. Dal momento che è stato già proposto giustamente un inevitabile paragone con la Woolf, è doveroso dare a Virginia ciò ch’è di Virginia e a Giacomo ciò ch’è di Giacomo: nella sezione centrale dell’Ulisse di Joyce (1882-1941), per la precisione nel capitolo intitolato alle sirene e ambientato in una mescita, domina una «sovrastruttura», caratterizzata da «nuclei tematici e fonemici»,(cito da G. Melchiori, G. de Angelis, Ulisse, Guida alla lettura, Mondadori, 1984) che rende quella parte una vera e propria sinfonia. Nel capitolo successivo, che ha luogo in una taverna ed è dedicato al brutale e animalesco ciclope, torna il monologo interiore (d’un io anonimo e non di Bloom, per una volta), inframmezzato dalle interpolazioni dei discorsi di altri personaggi: lo stesso si può dire dell’Autoritratto in blu, in cui al gorgo dei pensieri dell’anonima protagonista «muccona» sono giustapposti quelli della vivace sorella e del pianista, in un turbinio che spinge il lettore a piroettare nei cieli della musica e della letteratura.
Per la prima foto, copyright: Pauline Loroy su Unsplash.
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