Il senza trauma di chi non lo vede più
[Articolo pubblicato sulla Webzine Sul Romanzo n. 1/2013]
Oggi, non colpiscono più alla pancia, perché hanno capito che, quando si parla all’apparato digerente, si dura il tempo della defecazione. I quindici minuti non bastano più e, aspirando all’eternità, si colpisce al cuore. Che, ormai, non pompa più sangue, ma introietta emozioni a buon mercato, roba da fast food letterario che, al confronto, i libri di Liala sembrano produzione biologica arrivata dall’orto della nonna.
Cristallizzata la bontà in buonismo, tutto diventa pseudo-fiaba in cui il male non è mai sadico, ma si dibatte tra una sofferenza svelata nel finale, mediocre agnizione da Siti ai tempi d’oro della D’Eusanio, e semplice cattiveria chic à la Funny games o Il nastro bianco di Haneke, che si è perso dietro l’analisi sociologica della ricerca sull’origine del male, che è sempre esterna: l’individuo è buono e la colpa della cattiveria è della televisione o della società, ridotte talmente ad abnormi soggetti universali che i giurati del Festival del Cinema di Cannes, sentendosi incarnazioni dello spirito assoluto, pensano di esserne esclusi, non volendo riconoscere l’esistenza di qualcosa più universale di loro e capace d’inglobarli e direzionarli. Talvolta, i premi gridano la vendetta dei premianti.
Ogni epoca ha la sua metafisica che, come sempre, assolve la stessa funzione: ingigantire per nascondere, spostare l’asse un po’ più in là, fino a quando lo sguardo crede di vedere una rappresentazione sensata in una nuvola qualsiasi. La realtà perde di consistenza e diventa il reale, scomparendo dietro una riflessione sul senza trauma, che, come in Daniele Giglioli[1], si fonda sull’incapacità di riconoscere le nuove forme in cui si manifesta.
[1] Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Quodlibet, Macerata 2011.
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