Il senso della sofferenza. Intervista ad Andrea Tarabbia
Sono molti gli scrittori che si sono confrontati con la tematica della sofferenza e del dolore, argomenti che coinvolgono inevitabilmente tutti noi; da Albert Camus a Borges a Philippe Forest (soprattutto con Tutti i bambini tranne uno) e molti altri. Andrea Tarabbia nel libro Il peso del legno, pubblicato da NN editore, si mette in gioco e prova a dirci la sua opinione su questi temi; e lo fa andando a confrontarsi con chi, prima di lui, aveva trovato il modo di parlarne; lo fa rileggendo le antiche scritture e provando, senza la fede, a trovare nei testi sacri qualcosa che potesse dare un senso al dolore umano. Spinto da alcuni interrogativi che il suo libro ha aperto nel mio corpo, ho avuto il desiderio di porre, ad Andrea Tarabbia, alcuni, per me, importanti quesiti; è nata questa intervista.
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Nel suo libro Il peso del legno parte dalla croce di Cristo per poi affrontare temi universali quali la colpa, l’espiazione ed il sacrificio. Ci mostra Simone di Cirene come simbolo del peso che potrebbe, in ogni istante, caderci addosso. Esiste una giustizia divina? Oppure siamo tutti abbandonati al caso?
Da non credente, o meglio, da agnostico, non credo in una giustizia divina. Non credo in un intervento divino sulle nostre vite, e non credo nel Giudizio universale – quel momento in cui tutto sarà finalmente giusto e a ognuno di noi verrà dato ciò che gli spetta. In fondo, da qualche parte dentro di me, ci spero, ma non so crederci e non riesco a farci affidamento. Con mia sorpresa, leggendo certi teologi, ho scoperto che alcuni di loro, pur vivendo e scrivendo nella fede, hanno posizioni vicine alla mia: penso a Sergio Quinzio, del cui lavoro parlo verso la fine del Peso del legno, e in particolare a uno dei suoi ultimi libri, che ha significativamente (e provocatoriamente) intitolato La sconfitta di Dio. In cosa consiste, per Quinzio, questa sconfitta? Nell’attesa a cui noi siamo condannati: Cristo ha fatto agli uomini promesse di salvezza, di riscatto, ma questa salvezza e questo riscatto non sono arrivati, e nel frattempo sono trascorsi due milleni durante i quali i morti non sono risorti, i giusti non sono stati premiati, i miti non hanno ricevuto la terra e chi la reclamava non ha avuto giustizia. Credere significa portare pazienza, sedersi e attendere che questa salvezza si compia, benché da migliaia di anni ciò non succeda e questa giustizia non arrivi: io non ho questa pazienza, non ho la forza di stare seduto.
Come convive con il dolore, svincolandosi da una possibile fede?
Questo è un punto cruciale, su cui ho molte domande e molti dubbi, ma nessuna risposta. Uno dei grandi temi del mio piccolo libro è proprio l’idea, che viene promossa dalla religione cattolica, dell’accettazione del dolore in quanto viatico per la salvezza e in quanto momento supremo di condivisione e compassione con Cristo. Insomma: stai male, soffri, pena, e godine, perché è capitato anche a Cristo e questo è l’unico modo, per te, di stargli accanto. Attraverso il dolore del corpo o dell’anima, attraverso la croce, puoi trovare Dio. C’è qualcosa di passivo e di perverso, in quest’idea, qualcosa che non so accettare. Non riesco ad accettare il fatto che convivere con il dolore, con la malattia e la privazione sia o possa essere una fonte di gioia, una benedizione: è uno scandalo, per me, un’ingiustizia, e non c’è nulla che mi consoli in questa visione. Non ho ancora trovato un modo per convivere col dolore fuori dalla fede: finora sono stato in grado soltanto di provare rabbia, frustrazione, senso di abbandono. Ma forse è proprio questo il punto: opporre al dolore, anziché la sopportazione e l’accettazione, una lotta, un rifiuto.
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In che maniera la scrittura, per lei, può darci la possibilità di alleviare il peso dell’esistenza?
Non credo alla scrittura, alla letteratura, come terapia. Non penso ci si possa curare con i libri, anche perché i libri che amo sono libri che mettono un’agitazione, un’ossessione. Sono libri che fanno domande terribili e non danno risposte, perché risposte, in fondo, non ci sono o, nel migliore dei casi, sarebbero consolatorie e sciocche. La letteratura, a me, ha sempre fatto questo: mi ha messo nudo di fronte al mondo e mi ha detto «Affrontalo!». Certo, ovviamente la letteratura è la mia massima fonte di piacere – e in questo senso allevia il peso dell’esistenza: ma è un piacere dato non dal fatto che ciò che leggo risolve i miei problemi e le mie angosce, ma dal fatto che mi stimola ad affrontarli attraverso la bellezza.
Il libro è anche una storia di antieroi (Simone di Cirene, Lazzaro, Giuda, Pilato) che subiscono il peso di una responsabilità senza forse riuscire a sostenerla. Il sacrificio, nella maggior parte delle religioni, è visto come una strada verso una ricompensa. Qual è il suo senso del sacrificio?
Non avevo mai pensato a quei quattro come “antieroi”, ma solo come a qualcuno cui viene affidato, senza che ne sia del tutto consapevole, un peso gigantesco: in questo senso nessuno di loro si sacrifica, perché ho sempre visto il sacrificio come qualcosa di consapevole, come una scelta. È per questo che parlo di loro e mi chiedo per quale motivo Cristo non li abbia resi partecipi, non abbia condiviso con loro la sua gloria, ma li abbia resi solo strumenti di un suo disegno. C’è una reticenza, nelle parole di Cristo a Giuda o a Pilato, che non capisco: leggo il Nuovo Testamento e penso «Diglielo! Di’ loro che è necessario che compiano dei gesti inauditi, che sono stati scelti per starti accanto!». Invece Cristo maledice Giuda e circuisce Pilato. Mi chiedo: perché? Perché non li ha voluti vicini? Ripeto: il loro non è un sacrificio perché non prevede una ricompensa e, soprattutto, perché le loro azioni sono compiute senza avere coscienza del disegno che li sovrasta.
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È, questo suo, un libro anche, in parte, autobiografico, dove ci mostra una fetta intensa del rapporto tra lei e suo padre. Come si gestisce il dolore degli altri e in che maniera possiamo farcene carico?
Io non ho mai pensato che mio padre potesse morire, né prima della malattia né quando era in terapia intensiva. Ho un figlio di quattro anni e, quando giochiamo, rivedo in lui certi atteggiamenti che avevo io molti anni fa nei confronti di mio padre: posso saltarti addosso, darti i pugni, salirti in groppa, tanto tu sei papà e sei forte, e ci sarai sempre. La malattia di mio padre, le sue ricadute, mi hanno insegnato che questo non è vero, eppure c’è una parte di me che ancora finge che mio padre sarà con me finché sarò vecchio, che non arriverà mai il momento in cui sarò solo. Ho visto, nella mia famiglia, molte persone nel corso degli anni avere a che fare col dolore degli altri, farsene carico: nel libro faccio l’esempio di mia nonna, e devo dire che, se dovessi basarmi solo sull’esperienza diretta, su ciò che ho visto e ho vissuto, il sentimento principale davanti al dolore degli altri è l’inadeguatezza: non sono capace di portare sulle mie spalle il peso del tuo dolore e della tua sofferenza; ti lavo, ti do da mangiare, ma questa cura, per qualche motivo, è ancora poco, è inadeguata. Questo è il sentimento principale che provo davanti alle grandi sofferenze delle persone, soprattutto di quelle che amo: è come se il loro dolore contenesse un abisso imperscrutabile dentro il quale non siamo in grado di guardare, qualcosa di inesprimibile e incomprensibile da chi, per quanto dedichi tutta la vita alla cura di una persona, vive dentro un altro corpo. Ogni dolore contiene un segreto: di quel segreto non possiamo farci carico, ma dobbiamo allenarci a sapere che c’è e rispettarlo.
Esiste una salvezza per l’essere umano? Può avere luogo una redenzione anche in assenza di fede?
Non lo so. Sono domande che stanno, da sempre, al fondo dei miei libri, potrei dirle che scrivo libri per provare a rispondervi e che il fatto di non aver trovato risposte è ciò che mi permette di scrivere e di leggere. Quando avrò trovato una risposta, anche sciocca, lascerò cadere la penna e mi metterò seduto.
Per la prima foto, copyright: IV Horton.
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