Il racconto della precarietà. “Estate” di Leonardo Colombati
Leonardo Colombati è tornato in libreria. Dopo l’esordio nel 2005 con Perceber, uscito con Sironi e divenuto un caso editoriale, dopo Rio, pubblicato con Rizzoli nel 2007 e acclamato da larga parte della critica – Antonio D'Orrico ha affermato che l’autore, insieme ad Alessandro Piperno e a Roberto Saviano, è uno dei tre salvatori della letteratura italiana –, dopo Il re e 1960, usciti entrambi per Mondadori nel 2009 e 2014, ora Colombati, giornalista e direttore di «Nuovi argomenti», torna a far parlare di sé con Estate (Mondadori 2018), un romanzo sulla sconfitta, sulla reazione e la precarietà delle nostre sicurezze.
Il quarantenne Jacopo D’Alverno, il protagonista, ha perso tutto: l’albergo, a cui teneva più della sua stessa vita, sua moglie, i suoi risparmi, la casa. E con essi la voglia di vivere, la forza di avere paura e di soffrire, la capacità di appassionarsi. E quella colpa, indicibile, continua a stagliarsi sullo sfondo della sua esistenza, come il rumore fisso e fastidioso di un trapano proveniente dall’appartamento accanto.
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Poi, però, come spesso succede, è un viaggio che cambia le carte in tavola. Quando tutto pare perduto solo cambiare punto di vista può permetterci di ripristinare uno sguardo lucido, a patto che esista. La destinazione è la Norvegia, dentro cui Colombati ci conduce da una doppia prospettiva: attraverso la bella Astrid e la logorroica Kari scopriamo la quotidianità di un popolo perfettamente a suo agio con la lingua inglese, capace di costruire un rapporto di reciproco rispetto con la natura, innamorato perso delle storie cantate da Bruce Springsteen; al contempo, incontriamo un popolo in preda a un terrore inedito e inaspettato, quel terrore causato dalla strage del 22 luglio 2011 perpetrata da Anders Behring Breivik, che uccise in un giorno settantasette persone. Per una serie di vicissitudini il protagonista si trova ad assistere al processo all’attentatore e finisce per incrociare lo sguardo di quell’uomo, sano e folle allo stesso tempo, che si imprime nella mente del vigliacco Jacopo, che, quando il suo albergo è andato a fuoco, si è scordato della moglie e della figlia, preoccupandosi di sconosciuti ospiti.
Le donne sono il perno delle sue emozioni, dalla sorella alla figlia, dalla moglie alla madre. Gioie e dolori, salvezza e condanna, speranza e disillusione: tutto dipende dall’abilità con cui riesce a soddisfare le loro aspettative, rispondere alle loro esigenze. In bilico tra queste diverse sfere d’influenza e di potere, quella di Jacopo D’Alverno si rivela una goffa danza sincopata, attraverso la quale, imperterrito, il protagonista cerca lo smarrito equilibrio. Sì, perché sa che l’unica felicità che può conoscere è quella che deriva da queste donne che hanno il potere di dare e togliergli la vita.
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Questo di Colombati è un romanzo scanzonato, per certi versi grottesco e tragicomico. Lunghi flashback danno ritmo a una storia che a tratti risulta monotona e poco avvincente. Poco avvincente, certo, perché tale non può che essere la storia di una sconfitta e delle sterminate difficoltà che si trova davanti chi dalla sconfitta vuole emergere. Come nella migliore narrativa, i ricordi evocati – ricordi “inquinati dall’immaginazione" – sono rivelatori e sono capaci di un’azione doppia: gettano nuova luce su quello che è già stato letto e creano i presupposti per ciò che viene detto in seguito.
Non è una storia a lieto fine, ma va bene così. Non ci sono nemici da sconfiggere, draghi da uccidere o folletti capaci di risolvere con una magia la più grave complicazione. Ci sono piccoli gesti, parole vuote e piene, azioni semplici, telefonate, lettere, drink bevuti a tarda notte nella solitudine di un elegante bar d’albergo o cocktail sorseggiati in compagnia su un terrazzo con vista sul mare. Questa forse è la grande responsabilità che grava sulle spalle di ognuno di noi. Non è vero che il mondo non si può cambiare: bisogna solo partire dal piccolo mondo dei nostri affetti. Ogni dramma privato è un dramma collettivo, anche se la collettività è fatta di quattro o cinque persone, con i propri sogni e i propri incubi, con cui pure la più piccola azione deve fare i conti, che lo si voglia o meno. Forse è proprio questo che vuole raccontare Leonardo Colombati in Estate, che dal titolo subito richiama alla mente l’omonima canzone dei Negramaro, che, guarda caso, esordisce così:In bilico / tra santi e falsi dei / sorretto da un'insensata voglia di equilibrio / e resto qui / sul filo di un rasoio / ad asciugar parole / che oggi ho steso e mai dirò. Colombati quelle parole le ha dette, attraverso la storia di Jacopo D’Alverno.
Per la prima foto, copyright: Vidar Nordli-Mathisen.
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