Il racconto del cambiamento. Intervista a Carola Susani
Incontrare, seppur a distanza, Carola Susani è come sporgersi dalla sommità di una morbida collina e scoprire che dall’altra parte c’è un intero oceano in burrasca che aspetta un lettore coraggioso ed esperto che lo solchi. Attenta alla lingua oltre che ai personaggi che crea, le sue storie sono una stratificazione di narrazioni in cui tuffarsi per riemergere carichi di tesori.
In un collegamento telefonico con Roma, dove l’autrice di Eravamo bambini abbastanza vive e lavora, parliamo della Sicilia del 1957, ambientazione dell’ultimo romanzo di Carola Susani (La prima vita di Italo Orlando, edito da minimum fax). Una famiglia e un mandorleto sono testimoni dell’arrivo di un misterioso ragazzo dagli occhi gialli (l’Italo del titolo) che preannuncia il vento del cambiamento. Un vento che soffia sulla Sicilia bisbigliando dolci promesse.
Il cambiamento sembra essere il perno di questo romanzo, intorno a cui ruotano le esistenze di Irene (adolescente e voce narrante della storia), suo padre, sua nonna e dell’intero pezzetto di Sicilia ancorato alla tenuta di Sette Cannelle. Era questa la sua intenzione? Scrivere una storia incentrata sulla capacità di affrontare il cambiamento?
Sì, il libro e l’intera trilogia di cui fa parte questo romanzo ruotano intorno al cambiamento. Come fare ad affrontarlo in un momento in cui ci sembra inarrestabile e inenarrabile? Il cambiamento si porta dietro tante questioni, prima fra tutte quella delle aspettative, senza contare lo stupore che possiamo provare di fronte a esso. Soprattutto se non abbiamo notato i piccoli cambiamenti, minuzie che, messe tutte assieme, si trasformano in un’onda che ci travolge. Italo è una semi divinità del cambiamento, un Dio minore.
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Il tema della divinità e della religiosità è molto presente in questo romanzo, sebbene quella di Irene non sia una famiglia classica degli anni Cinquanta, formata da madre, padre e un nugolo di figli al seguito, né tantomeno allineata ai canoni della religione cattolica. Tutti hanno bisogno di credere in qualcosa o in qualcuno? Lo trovano in Italo?
Italo si trova di fronte a una famiglia che non è né carne né pesce. La madre è morta facendo nascere Irene, che rimane a vivere con il padre e la nonna. Viene da una famiglia di artigiani, il filtro fra il mondo contadino e il mondo esterno. Suo padre, fotografo, legge il giornale, si fa mandare i libri. È una diga fra due mondi. Anche Irene è un ibrido. È una ragazzina alle soglie dell’adolescenza e non è casuale. Le persone che vivono al confine sono più capaci di percepire il nuovo che avanza. Sono in attesa di qualcosa. È vero quello che diceva: è difficile liberarsi della fede, ognuno sceglierà la propria, ma vivere senza è difficile. Il bisogno di credere è una delle leve della conoscenza perché ci apre all’esterno e quindi al cambiamento.
Questo libro è narrato dal punto di vista di Irene, in prima persona. Cosa l’ha portata a fare questa scelta e perché spesso il punto di vista nelle storie che racconta è quello di un ragazzo o di un bambino.
Ho una predilezione nettissima per la prima persona perché mi permette di dare una voce più autentica ai miei personaggi, di giudicare solo attraverso i loro occhi e i loro sguardi, costruendo la dialettica fra personaggio e mondo che vive in modo che non copra lo sguardo al lettore. Scelgo spesso ragazzi o bambini perché il momento di passaggio fra la fanciullezza e l’età adulta è unico. Chi lo vive è costretto a trovare il proprio spazio, osservando ciò che lo circonda com’è effettivamente, senza filtri, solo per trovare il proprio posto nel mondo. È il momento in cui scegliere se aderire o lottare, se fare la cosa “giusta” o sentirsi in colpa per non averla fatta. Niente è già dato, tutto è costantemente in discussione. Un momento incredibile da raccontare e in cui entrare.
Parliamo di colpa. Italo sembra privo di senso di colpa. Portatore di piccoli miracoli, non esita a mettere in atto azioni dirompenti senza curarsi delle conseguenze. Penso alla scena in cui crocifigge una cornacchia, inchiodandola su un mandorlo con le viscere che seccano al sole. Ma cosa prova davvero Italo Orlando?
Noi non abbiamo idea di ciò che sente davvero Italo. Lo osserviamo dal di fuori, per mezzo di Irene. Non ha mai una soggettività. In questo può essere visto come un Dio o uno smemorato in cerca di una famiglia. Il fatto che non abbia una soggettività narrabile ci fa pensare che non provi sensi di colpa, ma né il lettore, né gli altri personaggi lo scopriranno mai.
Nel libro sono inserite alcune foto dell’epoca che richiamano momenti o luoghi chiave della narrazione, pur non essendone la rappresentazione esatta. La voce narrante dirà che ha smarrito quelle originali, sostituendole con alcune foto trovate in un mercatino dell’usato. Perché questa scelta?
È una forma di messa in discussione dell’illusione e nello stesso tempo è un modo per accedere l’immaginazione. Brechtianiamente le foto ti ricordano che tutto quello che leggiamo è inventato, ma è altresì uno spazio vivo fra la vita di Irene e il mondo esterno.
Scendendo nella mia officina, posso dirti che sono foto della mia famiglia, foto come tante altre, così come quella di Irene è una vita come tante altre che non deve essere realmente esistita per essere vera. Un gioco di immaginazione, che poi è l’unico modo per conoscere la realtà.
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L’immaginazione è uno strumento potente in questo libro, che si attiva dopo le prime righe di lettura, aprendo finestre verso mondi e storie paralleli che spetta al lettore trovare.
Io scrivo libri corti, come se della letteratura mi interessasse non tanto la narrazione, quanto il ricordarsi che è una coperta troppo corta e molto resta fuori. Sono sempre tentata di raccontare quel “molto”, di aprire continue porte e finestre verso l’esterno, che sia fuori dalla storia o dalla realtà come l’immaginiamo. In questo ho una visione religiosa della letteratura.
Come è nata l’idea di Italo Orlando? Viene subito in mente la storia di Orlando di Virginia Woolf.
Italo mi tormentava da anni. Spesso mi confronto con queste presenze mezze animali e mezze persone. Come in Eravamo bambini abbastanza ho creato Raptor, figura misteriosa vestita di verde che gira per i mercati sottraendo bambini alle loro famiglie, così per questa storia avevo in mente un uomo giallo che dormiva e proveniva da una mandorla. Sarà perché in quel periodo stavo lavorando su storie immerse nei miti greci e romani, ma mi sono ritrovata questo ragazzo fra le mani che ricorda Tagete, un semi Dio etrusco con i capelli bianchi come un vecchio e un viso da bambino, che nasce da una zolla di un campo. Portatore di cambiamento, introdurrà l’arte della divinazione, una novità assoluta. Questa è stata la base dell’invenzione di Italo. Poi certo c’è anche il riferimento a Woolf. Come il suo Orlando Italo passerà attraverso i decenni indenne, diventando protagonista del secondo e del terzo volume della storia che lo riguarda, senza mai perdere se stesso.
Italonasce anche dalla storia di una famiglia che ho conosciuto qualche anno fa per un progetto artistico a cui lavoravo e il cui mandorleto era stato spazzato via dall’arrivo del petrolio, come accade per la terra della nonna di Irene.
So che di solito si prende molto tempo per lavorare a una storia. È stato così anche con La prima vita di Italo Orlando?
Quattro anni per lavorare sull’idea, ma poco per scriverla, era maturata in me. Di solito sono molto più lenta, ma questa volta la scrittura ha portato via poco più di un anno.
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Italo Orlando, lo anticipavamo, è il personaggio chiave di una trilogia che lo vedrà muoversi attraverso gli ultimi sessant’anni. In quale decennio atterrerà la prossima volta?
Italo arriverà in una comune nata dopo il 1968. C’è un ragazzo che lo incontra e se ne innamora. Italo però è arrivato troppo presto e le conseguenze saranno importanti, portando a dolorosi cambiamenti.
Vorrei chiudere la nostra intervista soffermandomi sulla lingua che ha scelto per questo romanzo. Ricca, letteraria, capace di aprire varchi nella nostra immaginazione anche grazie all’utilizzo di sinestesie inattese e un’aggettivazione elegante. Cosa l’ha portata a questa scelta e a chi si è ispirata per modellarla?
Concordo, ho scelto una lingua colta, letteraria. È stata una scelta meditata per creare un senso di sospensione. La narrazione è radicata in un momento particolare della storia nazionale, ma al tempo stesso è universale. La storia di un cambiamento. Per questo è una lingua che non è strettamente legata a un periodo storico né a un contesto specifico. La mia ispirazione viene da Tommaso Landolfi, anche se la mia lingua è meno anticata, ma come quella di Landolfi ti fa dimenticare dove e quando ti trovi. Non posso dimenticare Anna Maria Ortese, un mio punto di riferimento.
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Per la prima foto, copyright: Aziz Acharki su Unsplash.
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