Il mondo uguale a se stesso. “I provinciali” di David Manzoni
Puntata n. 17 della rubrica La bellezza nascosta
«Giulio cammina ondoso per la piazza, le mani fra i capelli radi e la ramazza in mano. Il giorno ha fatto la pelle nuova tra nuvole bianche come meringhe, ma lui è già attivo in barba al caldo e al cielo stinto. Ha rovistato in ogni pertugio della chiesa, infruttuosamente, a conferma che la chiave, don Lamberto, la porta con sé.»
Il tempo fermo, il tempo vuoto, le ore che passano e che non passano poi mai. La vita facile o la vita calma, le abitudini, le stesse facce, i movimenti uguali di una giornata, due giornate, forse un anno intero, sempre gli stessi. Ci sono luoghi che restano immobili e si piegano continuamente su se stessi, attimi che passano e nessuno se ne accorge, momenti che non restano.
Esistono stati di calma che sembrano talmente reali da poter essere toccati, ma sotto quella quiete, sotto quell’apparenza, ci sono cose che brulicano, che odiano forse, che forse aspettano il momento per venire fuori, crepare la terra, e ingolfare, inquinare, un intero mondo interiore.
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Ogni luogo vive dei suoi vizi, delle sue contraddizioni, ogni paese somiglia ai suoi abitanti e ogni popolo è la fedele grammatica della sua terra. E quando ci capiti, in un posto che non ti appartiene o che magari ti è stato famigliare in un momento lontano di quello che sei stato, tutto ti appare lento o troppo veloce, irreale o fin troppo lucido.
Abbiamo bisogno di coordinate importanti per poterci orientare, abbiamo la necessità di spazi ampi o magari di case anguste, di volti che respirano silenzi, di strade che ci raccontano le nostre corse bambine, il primo bacio, il primo livido preso in mezzo agli occhi. Abbiamo bisogno, per capire dove andiamo, di tornare a essere, anche solo per poco, quello che siamo stati.
David Manzoni è nato a Genova, I provinciali è il suo esordio nel mondo dell’editoria, portato in libreria dalla casa editrice Ensemble. Mentre leggiamo le pagine di Manzoni, ci ritroviamo catapultati nella provincia, quel pezzo di mondo sempre uguale a se stesso, nonostante gli anni che passano e le vite che si consumano tra le strade. E subito siamo tra le vite di don Lamberto, un parroco che forse guarda troppo le belle donne e che probabilmente scarseggia in devozione. Poi c’è Giulio, un anziano signore con la passione per l’investigazione. E ci perdiamo tra le pagine che ci raccontano di Lilia, una ragazza che studia fuori dal paese e che ci ritorna, nel borgo, per capire, forse capirsi.
«Una donna affacciata alla finestra che ritira i panni asciugati al sole, il giardiniere del Comune che annaffia le fioriere e il panettiere che mette i panini all’uva nel cesto in vetrina sono simboli di serena gioia di vivere. Dalle risaie si alzano gli aironi con le ali candide come lenzuola, eleganti e spettrali sul fondale celeste del cielo. Nella pensione della Rita c’è un andirivieni di facce da rotocalco e telecamere e giornalisti che si alzano tardi e fanno colazione quando il paese si mette a tavole per pranzo.»
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La lingua di David Manzoni è semplice, la scrittura è lineare ed essenziale. In questo viaggio, in questo piccolo spaccato di vita, l’autore ci accompagna, camminandoci di fianco mentre ci troviamo tra i vicoli del borgo, in una trattoria, nella chiesa.
Il borgo come simbolo, la provincia come micro mondo, dove ogni movimento, ogni gesto e ogni intenzione, viene amplificato e tende a entrare in risonanza.
«Ogni tanto le vecchie, quando vogliono incutere cautela alle ragazzine, raccontano la storia dello sbandato nei boschi del Po. È uscito da un “ospedale per matti” perché una bestia deve stare tra le bestie, come un cavallo o un cinghiale, e la civiltà non può tenerlo in prigione. È là da qualche parte e si nasconde, mangia, vaga, e di un cane randagio non ti puoi fidare.»
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E i mostri e le paure e le speranze di cui ci narra Manzoni, non sono altro che elementi atavici che ritornano come tutto, del resto, nella vita.
E lui ci racconta dei disagi e delle contraddizioni, nascondendo il tutto dietro l’allegoria della vita di un piccolo borgo, dove gli occhi sono occhi di tutti, e dove ogni voce fa il giro della piazza e colpisce tutti.
«A Giulio è venuto un certo magone pensando a Tino, alla forza incosciente con cui affrontava la solitudine. Nel rustico ha ancora la branda dove lo faceva dormire. Lui, prima dell’alba, spariva, ma lasciava un ortaggio o un fiore sul giaciglio. Era il suo modo di ringraziare.»
Ci nascondiamo dietro fili di paglia, e fingiamo una sicurezza che in fin dei conti non è mai appartenuta a nessuno. Cosa ci vive dietro la nuca forse non riusciremo mai a scoprirlo, perché nel tempo in cui proveremo a girarci per guardare cosa resta alle nostre spalle, ciò che c’era fino a un secondo prima si sarà messo a giocare a nascondino, aspettando noi, con la convinzione che a fare “tana” non ci riusciremo mai.
Per la prima foto, copyright: Timothy Eberly.
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