“Il grande me”, intervista ad Anna Giurickovic Dato
Con Il grande me (Fazi, 2020) torna in libreria Anna Giurickovic Dato, che aveva esordito tre anni fa con La figlia femmina (Fazi, 2017) e che questa volta affronta un tema molto difficile e delicato, raccontandoci cosa accade in una famiglia che deve gestire gli ultimi mesi di vita di un malato terminale.
Carla, voce narrante e alter ego della scrittrice, lascia Roma per trasferirsi a Milano in casa del padre, malato di un tumore che ormai non gli lascia che pochi mesi di vita. Dopo il divorzio, l’uomo si era trasferito al nord e i suoi contatti con i figli rimasti nella capitale con la madre si erano fatti sempre più sporadici. Adesso però che la malattia incombe, Carla vorrebbe recuperare almeno in piccola parte il tempo perduto, assistendo il padre fino alla fine, insieme al fratello Mario e alla sorella Laura che si stabiliscono con lei nella casa paterna. La situazione non è certo facile per il padre, costretto a fare i conti con il proprio rapido decadimento fisico e con il pensiero della morte imminente, ma nemmeno per i tre figli che si sono incaricati di assisterlo: l’imprevista convivenza porta infatti alla luce nostalgie, rimpianti e rimorsi, oltre a tentativi di fare luce su aspetti oscuri del passato che sono stati rimossi nel corso del tempo. La morte imminente impone a tutti, e non solo a chi sta per andarsene, di chiudere eventuali conti in sospeso prima che diventi impossibile farlo.
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Il grande me affronta con sicurezza un tema delicato, raccontandoci situazioni che si possono verificare in qualsiasi famiglia e che, se accadono, ci trovano quasi sempre del tutto impreparati, perché siamo tendenzialmente restii a occuparci della morte e a rassegnarci alla sua ineluttabilità. Ne abbiamo parlato con l’autrice in questa intervista.
Lei ha dichiarato che questo romanzo prende spunto dalla sua esperienza personale e familiare, sia pure modificata nella finzione narrativa. È stato un atto liberatorio rivivere certe emozioni nella pagina scritta?
La scrittura è già, di per sé, un atto liberatorio: permette di elaborare, osare, estremizzare, senza dover necessariamente essere se stessi. Tanto più lo è quando si narra di fatti parzialmente autobiografici, dove è proprio quel “parzialmente” che salva, perché non se ne conosce la misura. Non posso dire di aver “rivissuto” certe cose ma, anzi, di averle rimosse proprio attraverso il gesto della scrittura: nel momento in cui si scrive, prestando la voce a un personaggio, mescolando realtà e finzione, incentrandosi più sulla tecnica narrativa che sul dolore, accade persino di potersi dimenticare di se stessi. Il personaggio prevale sul narratore, e più i suoi tratti si delineano in profondità, più il narratore scompare e, con lui, scompare anche il suo vissuto.
Il grande me non è quindi un atto di ripetizione, ma un tentativo di oblio; mentre tutto ciò che diveniva narrativa spariva dal vissuto, la memoria si faceva dispositivo esterno di esperienza non più personale, ma collettiva. Penso alla mia fortuna: prendo un dolore, lo deposito in un libro, lo moltiplico, lo lascio in libreria e lo affido ai lettori; da quel momento in poi è un dolore che non mi riguarda più o, quanto meno, mi riguarda diversamente. Nonostante tutto il rispetto che riservo alla psicoanalisi, devo dire che la scrittura ha davvero un grande potenziale nell’estrazione (e poi nell’astrazione) dell’inconscio.
Come è stata vissuta dai suoi familiari questa scelta di raccontare un periodo così delicato, e tutto sommato profondamente intimo, della sua vita?
Benissimo! Bene al punto che hanno deciso di non leggerlo…
A parte questo, mia madre e i miei fratelli sono sempre i miei più grandi sostenitori. Non c’è, tra noi, nessuna accusa velata, nessuna presa di posizione. Loro sanno che se in un personaggio troveranno alcune somiglianze, ciò non significa che dovranno incontrare sé stessi; che una negazione, una stortura, un mancato riconoscimento al personaggio non significherà un tradimento alla persona. La mia vicenda narrativa è così importante per me che non può che esserlo anche per loro.
Tutt’altra questione è la pressione che io sento e ho sentito durante la scrittura, temendo quel che ne avrebbero pensato i miei famigliari. Vi è stato un momento in cui ho avuto un blocco, eppure mi ostinavo a scrivere. Quando ho capito che non lo avrei risolto con l’ostinazione, ma con l’allontanamento, ho lasciato decantare il romanzo parecchi mesi, ho fatto sì che maturasse anche ciò che tenevo dentro. Rimettendomi, poi, a scrivere mi sono resa conto che il problema si era risolto da sé. Nulla è stato scritto per far piacere a nessuno, nulla per rendere giustizia, né per tingere di eroismo alcune azioni; non ho avuto pietà con i miei personaggi, né li ho commiserati. Per fare questo ho avuto bisogno della giusta distanza.
Pensa che un libro come questo possa in qualche modo aiutare e confortare chi sta attraversando esperienze analoghe e si ritrova spesso impreparato di fronte a certe situazioni?
Non saprei dirlo. Qualcuno potrà sentirsi compreso leggendo una storia che tanto gli ricorda di sé, del proprio vissuto, delle proprie emozioni e fasi interiori; altri, invece, vorrebbero continuare a covare speranza e allontanarsi dall’ineluttabilità che è, invece, la protagonista indiscussa di questo romanzo. Quello di cui, invece, sono certa è che non ho scritto Il grande me perché contenesse un’utilità, ogni effetto in tal senso, quindi, sarà da considerare un “effetto collaterale” (anche i libri ne hanno). Sono una grande sostenitrice dell’arte inutile, quella che non contiene alcuna pretesa educativa, né moniti, né insegnamenti, né risposte.
La mia scrittura viene da un gesto bruto, irragionevole, contraddittorio; non è mai garbata, controllata, coerente, comoda. E allo stesso modo si rivolge a un lettore che non vi cerchi dentro altro se non uno sconvolgimento emotivo, che si lasci trasportare senza razionalità, giudizio, stereotipo; un lettore che accetti il “transfert” richiesto dalla lettura e che, proprio grazie a questo, ricavi un profitto: non quello che ha previsto per lui lo scrittore, ma il frutto della propria interpretazione, quello che è già contenuto nel suo sguardo.
Lei è prima di tutto un avvocato, però ha pubblicato due romanzi e di recente si è dedicata anche alla sceneggiatura di programmi televisivi. È più facile essere concentrati su un solo progetto di vita, oppure essere eclettici e aperti a più possibilità, almeno finché si riesce a lavorare su più fronti?
Credo dipenda dalla personalità, c’è chi ha più facilità a concentrarsi su una cosa sola, chi invece, come me, proprio nell’iperattività trova la propria concentrazione. Inoltre, l’attività di scrittura dà un valore aggiunto a quella giuridica e viceversa. Grazie ai miei studi giuridici ho acquisito una forma mentis che mi è utile in molte attività, mi dà metodo, disciplina, nonché una visione giuridica e politica della realtà.
La scrittura e la creatività in generale, invece, danno i loro frutti nell’attività di ricerca – che prevale su quella d’avvocato – perché è grazie ad esse che riesco a modificare il mio punto di vista, individuare soluzioni, pormi le domande giuste prima di rispondere a quelle sbagliate. A volte diventa faticoso, ma credo di avere bisogno di questa fatica.
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Ha già qualche idea per un futuro romanzo, oppure per il momento ha altri progetti?
Sono ancora così assorbita da Il grande me che non riesco a pensare a un terzo romanzo, a volte credo persino che non ve ne sarà un altro, ma lo affermavo anche dopo il primo e, invece, eccomi qua… Intanto perseguo i miei progetti giuridici (ho discusso da poco la mia tesi di dottorato) e di scrittura televisiva (non do anticipazioni sul resto, ma posso intanto dire di aver firmato il contratto per la seconda stagione del cartone animato Giù dal nido, in onda su RAI Yoyo). Quello passato è stato un anno di semina, nel prossimo futuro spero di raccogliere.
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Per la prima foto, copyright: Daan Stevens su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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