Il dolore, silenzio e rumore del mondo. Intervista a Sébastien Bianco
Sotto il sole bastardo (Mondadori) segna l’avvento sulla scena noir italiana di un nuovo autore, Sébastian Bianco, e di due nuovi personaggi: Giacomo “Jack” Montichiari e Perla.
Milano e la sua periferia sono il punto di partenza delle loro avventure che permettono di gettare un po’ di luce sui luoghi più bui del capoluogo lombardo e di vedere le ombre dei luoghi più ricchi e più luminosi dei quali spesso di rifiutiamo di vedere gli angoli più nascosti.
Anche di questo abbiamo parlato con Sébastian Bianco.
Sébastien Bianco è uno pseudonimo. Perché proprio questo? E cosa la spinge a celare sua identità?
Avrei potuto sceglierne un altro che facesse riferimento alla tradizione hard boiled americana, ma ho preferito questo nome in omaggio alla tradizione francese del noir e alla cultura letteraria europea. Il noir francese, in particolare, ama più il climax della trama ed esalta la possibilità di mettere in tensione narrazione, socialità e scrittura.
Da lettore non mi curo del paratesto allargato alla figura e alle vicende dell’autore. Vado alla sua sostanza: il linguaggio, la visione che trasmette, l’intelligenza narrativa. Da autore di un noir vivo una grande libertà utilizzando uno pseudonimo, anche perché mi consente di giocare tutto sul valore e sul giudizio che riceverà il libro.
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Tra i protagonisti di Sotto il sole bastardo c’è sicuramente anche Milano, con un filo oscuro che l’attraversa tutta, non solo nelle periferie più buie. Possiamo provare a definire quest’oscurità di Milano?
Il lato oscuro di Milano coincide con quello suo più luminoso e mondano. Come il primo ha una sua trasparenza nelle dinamiche più apertamente criminali, quest’ultimo presenta una sua opacità, dove il benessere e lo sviluppo si nutrono della marginalità di molti, parte attiva dell’economia ma esclusi da una vera partecipazione civile. Questi ultimi, in ogni senso, vivono nell’economia ma sono assenti dalla storia.
Ho sempre visto la metropoli come una stratificazione di dimensioni umane che non si toccano, non si conoscono, si sfiorano appena ma in un modo cieco, impersonale. Anche la “bontà”, se c’è e quando c’è, non sfugge a questa cecità. Una lucida visione delle cose farebbe saltare i meccanismi su cui si reggono il privilegio, il sopruso, la finzione.
Il mio personaggio, Jack, ne è convinto, e infatti legge Céline e concorda con lui sul fatto che la verità ucciderebbe ogni società, ma si accanisce a cercarla, contro ogni buon senso. Sa pure che con i ricchi di buon cuore puoi parlare di tutto, ma non di quello che origina la loro ricchezza.
Uno dei fili oscuri che collega le diverse dimensioni di Milano è quello dell’illegalità, dell’infiltrazione mafiosa, ma, come accade nel mio romanzo, non è sempre chiaro chi sia strumento e chi artefice dell’affare criminale.
A Milano, anche nelle zone più centrali e non solo nelle periferie, si affiancano aree di benessere e di emarginazione, delimitate da confini invisibili che decidono i destini. Detto questo, a me non interessa fare sociologia in quello che scrivo. Ho a cuore le sorti dei singoli, che il caso ha fatto nascere in una certa condizione. Basta guardare negli occhi tanti che incontriamo per strada, ogni giorno, per capire che questa condizione è quella di una guerra solitaria per la sopravvivenza.
Giacomo, su richiesta di Perla, avvocatessa e amica di una vita, accetta l’incarico di nascondere Emiliano, figlio di un assassino in carcere per evitare che sia anche lui a pagare per il padre. Esiste ancora una condanna come questa? Detto altrimenti, le colpe dei padri ricadono ancora sui figli?
Certo che esiste una condanna come questa, soprattutto se si nasce all’interno di una famiglia criminale. Per fare uno scarto, andare in altra direzione, occorre avere mezzi e risorse, un coraggio che non sempre arrivano da soli. Occorre una forza contraria che venga in soccorso, che strappi a una direzione già segnata, come quella che offre Jack a Emiliano. Occorre avere un’estetica, un linguaggio, un’apertura impensata per vedere le cose in una luce diversa. È anche questo che Jack offre al ragazzo. La nostra, purtroppo, è una società ancora segnata da caste impenetrabili. Le colpe e gli obblighi criminali dei padri ricadono sui figli, così come la loro ricchezza e il loro potere. Tutto quello che sfugge a questa logica è un’eccezione che la conferma. Quando Jack decide di affrontare la sfida che gli propone Perla, sa bene che i destini si possono cambiare solo uno a uno, a costo di rimetterci la pelle.
Giacomo e Perla condividono un passato non proprio idilliaco, con il quale entrambi hanno fatto i conti sebbene in maniera diversa. Ma cosa resta, da adulti, della sofferenza che abbiamo attraversato da giovani?
Quello che abbiamo vissuto da ragazzi è la radice di quello che siamo. Si conserva nel suo dolore e nella sua purezza, in modi imprevedibili risorge e segna il nostro modo di reagire alla vita. Eravamo più ingenui, più ignoranti, più smarriti, ma il modo in cui abbiamo vissuto la nostra apertura all’esistenza testimonia il nostro bisogno di verità, al quale si può sfuggire solo facendosi del male, solo simulando. La sofferenza che abbiamo vissuto porta al desiderio che altri non la vivano. È quello che accade a Jack e Perla, che ormai hanno esistenze molto diverse ma non dimenticano quella loro radice comune, che li porta a mettere in gioco tutto per non tradirla.
Nel romanzo si parla spesso di dolore o attraverso i dialoghi tra i personaggi o è la voce narrante a soffermarsi su questo tema. Che cos’è il dolore per lei? In che misura provare a liberarsene può essere la soluzione giusta?
Il dolore è allo stesso tempo il rumore e il silenzio del mondo. È una percezione della vita che non si può edulcorare, aggirare, redimere. Dal dolore non ci si può liberare né al dolore ci si può rassegnare. Il dolore chiama a una reazione, che può seguire un percorso che rasenta la follia, come nel caso di Jack, che arriva a definire il sole bastardo in una sua determinazione personale a non piegarsi e a mettere la sua energia al servizio di una spinta contraria, forse illusoria, ma concreta, palpabile, affinché qualcun altro, un ragazzo, ne venga almeno un po’ protetto.
Io vivo il dolore come Jack, il dolore è l’ineluttabile nella vita, ma ha la stessa origine di ogni gioia possibile. Affondano lì, sono vivi nella stessa sensibilità. Solo che uno esiste da sempre, e l’altra viene solo dopo e non lo annulla.
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Giacomo "Jack" Montichiari sembra il protagonista adatto per una serie di romanzi. Ha già in mente qualche altro episodio? O ha in cantiere dei progetti del tutto nuovi?
Sto pensando a una nuova avventura di Jack e Perla, ho già qualche idea, sarebbe bello scriverla. Non mi dispiacerebbe provare anche qualcosa di diverso con quella “voce” che li ha raccontati. Vedremo. Per ora sono contento che loro esistano.
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Per la prima foto, copyright: Inzman Khan su Pexels.
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