Il “De Profundis” di Oscar Wilde, una dichiarazione di poetica dell’Arte di amare
La lettura di un’opera come il De Profundis di Oscar Wilde (1854-1900), esponente dell’estetismo inglese e difensore delle bellezze più stravaganti tali da restituire all’artista quello statuto di legittimità perduto con l’avvento della modernità, chiede innanzitutto di tirare un respiro molto profondo: non solo per la lunghezza della lettera in questione, che si distende per oltre un centinaio di pagine senza interruzioni, ma soprattutto per la totale immersione che essa richiede – come ogni lettera – all’interno della dimensione dello scrivente, che in questo caso giace da ormai due anni in una cella della prigione di Reading, una città del Regno Unito meridionale poco distante da Londra. Si deve immaginare, quindi, la prostrazione fisica e mentale dell’internato, che stende parole di vario tipo e di vario tono rivolte all’amante indifferente, al fautore della sua incarcerazione, all’uomo «dalla piccola vita di piccoli capricci e di piccole emozioni che sarebbe rimasta perfetta nella sua piccola sfera»: Lord Alfred Douglas, meglio conosciuto come Bosie (1870-1945), figlio del marchese di Queensberry, il quale sporse più volte denuncia contro l’artista per sodomia.
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La lettera – riproposta nel 2014 in edizione integrale dalla casa editrice Feltrinelli nella traduzione di C.S. Raggi – si apre con una prima dichiarazione di intenti del mittente: egli è pronto a recriminare a Douglas i torti fatti alla propria arte e alla propria persona, che vuole vendicare attraverso i numerosi atti d’accusa contro la vanità dell’interlocutore. La direzione che Wilde chiede a Bosie di prendere è quella della presa di coscienza, quindi del pentimento delle proprie azioni, che, seppur non volute, l’hanno condotto a vagabondare per numerose carceri; e lo chiede in nome dell’amore provato per lui e delle lacrime che l’autore si ritrova a versare di giorno in giorno in un luogo in cui «l’unica stagione è quella del Dolore». Ma, nonostante questa premessa venga esplicitata e subito attuata nel puntuale riferimento agli svariati casi di violenza verbale, illimitata prodigalità e ingratitudine che hanno visto il compagno come protagonista, e soprattutto nel resoconto che l’autore fa dei vari processi a lui intentati per causa sua, lo scritto vira di frequente verso porti inattesi pur continuando a solcare il mare dell’anima wildiana: si pensi, ad esempio, al desiderio di liberare Bosie dal fardello che l’autore crede lo opprima per averlo portato in carcere, o alla remissione che egli stesso fa delle proprie tendenze perverse, frutto del desiderio di un piacere illimitato degenerato in malattia e follia, o ancora alle prospettive di una vita nuova imperniata sull’umiltà e sull’Amore che già lo aveva alimentato prima dell’infausta esperienza in prigione e che durante la scrittura riarde grazie alla quotidiana lettura del Nuovo Testamento e alla comprensione della poeticità romantica di Gesù: colui che fece dell’immaginazione l’elemento fondativo di un mondo d’amore per cui «ciò che accade al prossimo accade a noi stessi».
Infine, l’autore condensa nelle ultime pagine il senso più profondo dell’esperienza condivisa con Douglas, delineando i moventi delle sue azioni e le prospettive di salvezza per se stesso e per l’amico: dopo aver indicato i reali colpevoli di una disgrazia che ha colpito anche lo stesso Bosie nella vigliaccheria di sua madre, nell’odio connaturato in suo padre, nel suo «trasferimento di responsabilità» e nella sua «mancanza di proporzioni» che l’hanno portato a misurarsi con realtà a lui non confacenti, Wilde si dimostra disposto a offrirgli un’occasione di sincero pentimento di impronta cristiana e l’apprendimento del significato del Dolore, facendo leva sul ruolo di precettore del Piacere che egli aveva rivestito per lui in tempi più felici.
Lo scopo immediato di questa lettera, realizzata secondo modalità che aggiravano astutamente le restrizioni carcerarie dell’epoca, le quali impedivano ai prigionieri la stesura di romanzi o poesie ma non apponevano limiti alla scrittura delle lettere, è l’espressione del sentimento d’amore di Wilde per il prossimo attraverso la liberazione del proprio cuore dall’amarezza; ma le sue parole assumono anche i tratti di una dichiarazione di una nuova poetica.
Il punto di partenza è sempre quello di fare della propria vita un’opera d’arte. Sin dagli anni precedenti all’incarcerazione, l’autore si è attenuto a questa direttiva, illudendosi che la vita fosse una commedia brillante, e trova modo di applicarla sia nei primi mesi di prigionia, in cui comprende che la conoscenza di Bosie era stata un preludio alla tragedia in cui si è trasformata la sua vita, sia in prospettiva futura: attraverso l’elaborato in questione, infatti, dichiara di fare degli insegnamenti cristiani la testimonianza di una condotta di vita la cui poeticità risiede nella profondità del Dolore e nella forza dell’Immaginazione, recuperata dall’arte romantica e riletta in prospettiva cristiana. Il ruolo edificante del Dolore è riconosciuto passando per la sofferta esperienza dell’autore, che ne offre la seguente interpretazione:
«Dietro alla Gioia e al Riso può esservi un temperamento rozzo, duro e insensibile. Ma dietro al Dolore vi è sempre il Dolore. La Sofferenza non porta maschera, al contrario del Piacere. […] La verità nell’Arte è l’unità di un oggetto con se stesso; l’aspetto esteriore esprimente l’interiorità; l’anima incarnata, il corpo infuso di spirito. Per questa ragione nessuna verità è paragonabile al Dolore».
Partendo da questo stato di cose, dunque, è possibile fondare la nuova Arte, che l’autore chiama “moderna” perché privilegia non tanto il tipo, quanto l’intensità, e si propone come impegno etico la comprensione partecipativa dell’altro, già elemento essenziale della morale di Cristo contrapposta al filisteismo, ossia il credo tanto di chi ha crocifisso Gesù quanto di chi ha condotto Wilde in esilio a Reading.
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La dichiarazione di poetica dell’Arte di amare passa per le mani di Douglas, che per primo è chiamato a rispondervi sia per motivazioni contingenti, considerati il rammarico e i crucci di Wilde per non aver ricevuto alcuna lettera dall’amico durante la prigionia, sia per il più universale affetto che l’autore gli riserva nonostante tutto. E la retorica epistolare tenta di cementare l’aggancio di quelle due anime che nella realtà concreta erano saldate dalla Nemesi, secondo le stesse parole dell’autore: la bonarietà che in precedenza ispirava la condotta dell’autore cede ora il posto a un individualismo costruttivo che ripercorre le esperienze vissute da lui e dal compagno in un’ottica di giustizia poetica, poiché commina a ciascuno la pena e le grazie; e lo stile fluido, elegante e sentenzioso dall’evidente intento pedagogico che egli utilizza si rivela utile tanto ad ammonire quanto a istruire il lettore e a farlo sentire emotivamente partecipe di un discorso che tenta di esprimere lo scorrere mutevole della vita. Ciò è evidente nei frequenti cambiamenti umorali, nei passaggi dalle recriminazioni al pentimento personale e nei soliloqui interposti al resoconto dei fatti; tutti integralmente inseriti in una cornice dalle tinte drammatiche, ricreate con i tipici espedienti retorici della ripetizione tripla di frasi a effetto, dei riferimenti all’arte classica e al mito, della ripresa e della citazione di versi e della strutturazione dell’opera in atti che ricongiungono la situazione iniziale a quella finale, conferendole un senso integrale.
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