I giochi di ruolo: puro intrattenimento o veri e propri riti? Intervista a Vanni Santoni
S’intitola La stanza profonda il nuovo libro di Vanni Santoni, edito da Laterza e candidato al Premio Strega 2017. Un titolo evocativo perché ci conduce fin da subito in una dimensione diversa da quella a cui siamo solitamente abituati, la profondità che porta a sua volta in un luogo sommerso perché nascosto e al tempo stesso perché più immerso nel cuore della realtà di tutti i giorni.
È la profondità in cui, secondo l’autore, hanno luogo i giochi di ruolo, il tema centrale di questo romanzo (che poi è anche un saggio, ma nessuna delle due cose singolarmente) di Vanni Santoni che torna a indagare la sottocultura giovanile dopo il precedente Muro di casse, in cui l’autore toscano analizzava i rave party.
E proprio di giochi di ruolo, rave party, giovani e società abbiamo parlato in questa nostra chiacchierata con Vanni Santoni.
Dai rave party di Muro di casse ai giochi di ruolo di La stanza profonda. Per quali aspetti possono essere rappresentativi? E di quale realtà?
A prima vista la cultura rave e quella dei giochi di ruolo non potrebbero apparire più distanti. In realtà i punti in comune sono molti, ancorché non subito evidenti. Su tutto, ed è il motivo per cui dopo Muro di casse mi è venuto naturale scrivere questa Stanza profonda, le accomuna il fatto di essere sottoculture giovanili – ideate, realizzate e fruite da giovani, senza adulti di mezzo a dire come fare e quando o dove farlo – che sono state delle importanti avanguardie culturali, e che però sono state fraintese, stigmatizzate, a volte addirittura demonizzate e represse. In seconda battuta, ma qui si nasconde forse il perché di tanto accanimento contro di esse, hanno in comune il fatto di essere fenomeni non-competitivi: al gioco di ruolo, come al rave, si arriva diversi e si esce uguali (mentre nello sport o nei giochi “classici” si arriva uguali e si esce diversi – differenziati dalla linea che passa tra vincitori e perdenti) e si coopera per ottenere un evento che soddisfi tutti. Poi c’è il fatto che in entrambi i casi si utilizzano tecnologie per creare mondi altri. Da un lato, musica elettronica, luci, installazioni, psichedelici e entactogeni; dall’altro, schede personaggio, dadi e sistemi aperti di regole. Infine, e proprio per la loro natura non competitiva unita all’adozione di comportamenti codificati sulla base di un consenso comune, sia i giochi di ruolo che i rave trascendono l’intrattenimento – pur essendo anche intrattenimento – per farsi riti.
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Comincerei la nostra chiacchierata sul suo nuovo lavoro dal titolo molto evocativo. Perché la scelta della profondità come dimensione caratterizzante e di cosa è piena?
La ringrazio. La stanza profonda è un titolo che contiene due citazioni, entrambe fatte senza averne piena consapevolezza: La rosa profonda di Borges e La stanza enorme di Cummings. Nel mio caso, indica quel luogo, in genere il garage o la cantina della casa dei genitori, in cui i ragazzi giocano. È interessante, per collegarsi alla domanda precedente, che questi “nuovi rituali” avvengano sempre in luoghi marginali, nascosti: le cantine per i giochi di ruolo, le industrie abbandonate o i boschi per i rave. Esattamente come i culti perseguitati che si nascondevano nelle catacombe. Ci sono però altre due ragioni per questo titolo. La prima non posso dirla o svelerei uno degli snodi chiave del libro – basti sapere che nel romanzo c’è un’altra stanza profonda. La seconda, nel suo collegarsi al dungeon, il sotterraneo dove sovente si svolgono le avventure dei giochi di ruolo, si può desumere da questo passaggio del libro, che riporto:
«Dungeon non si traduce. Non si dice sotterraneo, cripta o peggio tunnel, e non solo perché un dungeon può essere indifferentemente un sotterraneo, una cripta o un tunnel. Si dice dungeon perché solo quella parola va a formare ciò che ci si attende da quel buco in terra immaginaria: un diagramma di flusso fatto di stanze e porte e trappole, passaggi segreti e mostri e scale, pozzi e sepolcri, predelle e statue (a volte anche inanimate), tane, fiumi sotterranei, tesori: insomma, l’avventura. Il mondo di Dungeons & Dragons, così come di tutti i giochi di ruolo fantasy, era un universo di folli architetti del sotterraneo: perché si scavava così tanto? Ovunque un campo ctonio speculare al mondo e altrettanto selvaggio; ovunque passaggi, porte, sale buie da rischiarare con torce o incantesimi... Il dungeon. Si possono fare campagne di grandioso respiro, che finiscono con battaglie campali tra interi regni e sfide agli dei stessi, si può salvare il mondo oppure conquistarlo, ma si finisce sempre per tornare nel dungeon. Corda, pertica, torce, fiasche d’olio per lanterna, guerriero, chierico, mago, elfo, in fila indiana, chi fa la retroguardia? Ci pensa il ladro, che ha sentire rumori? Si torna al dungeon perché è il luogo del subconscio. Di più: perché è il subconscio, dove il dettaglio si scioglie in archetipo e il tempo si riorganizza a sistema di scelte».
Restiamo ancora sulla stanza. Come nella tradizione dei giochi di ruolo, lei ci accompagna al suo interno rivolgendosi a noi con il “tu”, quasi un invito a muoverci in prima persona più che a seguire le azioni di un protagonista. È un modo per “trasformare” noi lettori in giocatori di ruolo e rendere più immersiva l’esperienza della lettura?
Ottima osservazione. Anche in questo caso non c’è una riflessione a priori, è una scelta che è venuta naturale, ma adesso credo proprio che la ragione per cui ho scelto la seconda persona è proprio quella: i giochi di ruolo sono esperienze in seconda persona, il master si rivolge al singolo giocatore col “tu” e al gruppo col “voi” quando descrive cosa vedono, e quindi era certamente il modo migliore per impostare un libro che parte da questi temi per affrontare la realtà. Va detto che la seconda persona mi interessa molto, avevo già sperimentato con essa nel prologo di Muro di casse e ora ho avuto la fortuna di lavorare al libro adatto per testarla a pieno regime.
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Una volta dentro la stanza (insisto su questo elemento perché mi sembra abbastanza centrale sia come luogo in cui accade il gioco sia come sua condizione di possibilità) ciò che vediamo è quasi un buio totale perché «Solo l’ultima imposta, per via dello sfasamento di due liste, lascia entrare un ago chiaro, sufficiente a suggerire l’esistenza del mondo fuori, ma niente di più». Qual è il rapporto tra il mondo interno al gioco e quello di fuori? E che relazione c’è tra i due nella psicologia del giocatore di ruolo?
È facile distrarsi un attimo e finire nella Caverna di Platone... Al di là dei rimandi filosofici e simbolici, La stanza profonda è un romanzo in cui è messa in scena una continua dialettica, non sempre pacifica, tra il mondo fuori e il mondo del gioco. Qualcosa che va molto oltre le interpretazioni facili, l’escapismo o la “bolla” dove per qualche ora si tengono fuori i problemi e lo stress del mondo reale. Scrivendo il romanzo mi sono reso conto che c’era in ballo qualcos’altro, il tempo che si sospendeva, una realtà diversa ma per certi versi non meno “reale”, in quanto condivisa da più menti, che formava un contraltare a un mondo esterno, quello della provincia degli ultimi vent’anni, che andava atomizzandosi, dissipandosi, perdendo senso, aderenza, capacità di offrire identità e futuro a chi lo popolava.
Circa invece il rapporto tra mondo esterno e mondo interno nella psicologia dei giocatori di ruolo, non esiste un approccio unico. Ci sono giocatori molto proiettivi, che attraverso la creazione di un personaggio creano un “sé ideale”, altri che portano se stessi così come sono, altri ancora che invece si divertono a interpretare personaggi completamente altri da sé, esattamente come se stessero recitando una parte teatrale, e ancora giocatori che usano il GdR come spazio per la sperimentazione comportamentale, anche estrema, nonché giocatori a cui interessa solo l’aspetto tattico del gioco e che quindi “interpretano” secondo principî di pura efficienza.
Non poteva mancare nel racconto l’analisi del modo in cui il mondo esterno vede i giochi di ruolo. Emerge una certa dose di incompetenza che si accompagna a molta diffidenza quando non a una vera e propria demonizzazione. C’è qualcosa di vero in queste posizioni, secondo lei? O sono totalmente infondate? E per quali ragioni?
Credo che nella nostra società ci sia una fortissima tendenza a stigmatizzare i giovani. Si cerca di irreggimentarli, si inventano categorie di devianza, si fa la guerra a ogni loro espressione culturale autonoma. I rave, che abbiamo citato prima, sono un esempio perfetto. Voglio dire, visto che ci si lamenta sempre che i giovani non avrebbero spirito d’iniziativa, allora dei gruppi di ragazzi che in modo autonomo e spontaneo si organizzano, realizzano artigianalmente degli impianti per la diffusione di musica, mappano il territorio, riprendono possesso di luoghi abbandonati dall’industria come rifiuti e li trasformano per vari giorni in luoghi di aggregazione, cultura (certo, una cultura del tutto “altra”: e anche per questo, soprattutto per questo preziosa), superamento delle barriere nazionali, bellezza e gioia, dovrebbero essere premiati. Invece, li si stigmatizza, perseguita e reprime. Più la subcultura giovanile è avanguardistica, più viene vista con sospetto. Così, anche un’attività infinitamente più mite dei rave – e che peraltro si attua in condizioni di piena legalità laddove nell’occupazione di un terreno vi sono degli illeciti intrinseci – come i giochi di ruolo ha trovato fieri oppositori e demonizzazioni non men che deliranti: “portano all’isolamento!” “portano al distacco dalla realtà!” “al suicidio!” “al satanismo!”. Tutte stronzate. Ovviamente si tratta di attività intelligenti e stimolanti, che hanno, non a caso, gettato le basi di molti aspetti della società in cui viviamo oggi, dai social network all’industria del gaming, fino ad anticipare questioni addirittura ontologiche– l’avvento di un’epoca in cui non è più così scontato dire che il virtuale è “meno vero” del reale.
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In Verità e metodo Gadamer ponendo un paragone tra arte e gioco afferma che «l’autentico soggetto del gioco non è il giocatore ma il gioco stesso. È il gioco che ha in sua balia il giocatore». Cosa accade al soggetto nei giochi di ruolo? Diventa una mera funzione? Insomma, la forza liberatrice del gioco permane oppure si perde tra le pieghe delle sue regole?
Sicuramente i giochi di ruolo formano una categoria a sé. Non possono essere definiti appieno giochi, dato che non hanno fine, non ci sono vincitori, non c’è nemmeno la possibilità di valutare in modo oggettivo chi “sta giocando meglio” perchégli obiettivi sono infiniti e variabili. Anche un giocatore che, poniamo, tenta di stanare un drago con un personaggio del primo livello, e finisce inevitabilmente ucciso, non può essere accusato di “giocare male”, dal momentoche sta esperendo il mondo del gioco e facendo le sue scelte. Il GdR è un medium che sta a mezzo tra, appunto, il rito, il gioco e lo storytelling. Il suo vero soggetto è estremamente astratto, eppure incredibilmente reale: è ciò che avviene nel “cloud”, nello spazio immaginario condiviso che viene creato dall’attività immaginativa combinata di master e giocatori.
All’inizio dell’intervista abbiamo parlato del lettore. Chiuderei con lo scrittore, sempre restando nella metafora dei giochi di ruolo: in questo caso è più un creatore di mondi nel quale altri giocano o è egli stesso uno dei giocatori?
Così come credo che il lettore sia sempre superiore allo scrittore, e mi considero lettore ben prima e ben più che scrittore, allo stesso modo credo che il giocatore sia superiore al master, e che il master sia giocatore prima di essere master. Senza lettori lo scrittore non esiste, e senza giocatori non esiste il master – non a caso la prima parte della Stanza profonda parla proprio di un giovanissimo dungeon master alla disperata ricerca di un gruppo con cui giocare.
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