“I due hotel Francfort”, incontro con David Leavitt
I due hotel Francfort è l’ultimo romanzo di David Leavitt, e in occasione dell’uscita in Italia – nella traduzione di Delfina Vezzoli – Mondadori ha organizzato un incontro con alcuni blogger durante il quale lo scrittore statunitense ha svelato i retroscena del suo nuovo lavoro.
L’azione si svolge a Lisbona, una Lisbona della seconda guerra mondiale, gravida di persone in fuga verso gli Stati Uniti e verso una briciola di speranza di sopravvivere. Perché Lisbona?
Nel 1940, Lisbona appariva come una bolla rispetto al resto dell’Europa, una bolla nella quale potevi sentirti protetto e rivolto verso un altro continente dove le bombe non cadevano, dove la morte non era uno spettacolo quotidiano. A Lisbona si viveva un clima quasi normale. Al contempo, però, coloro che riempivano le strade e gli alberghi della capitale portoghese erano rifugiati, gente che scappava da una guerra in atto, che si dispiegava sotto i loro occhi. Quindi la guerra c’era anche in questa città-bolla, ma solo attraverso le persone in fuga. Questa è una delle motivazioni che mi hanno spinto a scegliere la capitale Portoghese. Un’altra, invece, è di natura personale: l’ho visitata e mi è piaciuta.
Viaggia molto, quindi?
Abbastanza, benché di rado. Quando lo faccio, però, percorro mezzo globo. A proposito di viaggiare: i sogni stessi cambiano. Quando sono a casa, ho un incubo ricorrente: sto facendo le valigie e sono in un tremendo ritardo per l’aereo. Quando sono in altri punti geografici, non mi succede. Si viaggia anche nel sogno. E, certamente, viaggiare ti apre la mente.
I protagonisti del romanzo sono due coppie sposate che si incontrano casualmente in un certo caffè portoghese, un incontro che darà il via alla narrazione. Facendo un salto cronologico nel libro, nelle pagine finali, Georgina – uno dei personaggi – indica le dieci regole d’oro per scrivere un buon libro. Al contempo, la voce narrante – Pete Winters, il protagonista – dimostra quanto siano opinabili queste dieci regole – le stesse che molti corsi di scrittura creativa contemplano. Quali sono le regole, a questo punto?
Per scrivere un buon libro bisogna seguire un’unica regola: essere disobbediente.
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Pete, il protagonista e la voce narrante, appare come un personaggio complesso, anzi con una storia complessa. A tratti, è doppio, benché vi sia, in ultima analisi, una sintesi tra questi due estremi. Come i due hotel Francfort – i rispettivi alloggi delle due coppie, nonché il titolo. C’è un simbolismo nella scelta di questo titolo?
C’è, senz’altro, ma inconscio. Ho scelto questo titolo tra diverse possibilità. I due alberghi sono realmente esistiti, omonimi e, anzi, gestiti da uno stesso proprietario. Quando ho saputo questo dettaglio, ne sono rimasto incuriosito, da qui la scelta di inserirli nella narrazione e, poi, nel titolo. Pete, sì, è vero, a tratti si sdoppia in qualche modo, come gli alberghi.
Accanto a Pete, ci sono Julia, sua moglie, ed Edward e Iris, i Freleng, una coppia sposata di scrittori che pubblicano romanzi gialli con pseudonimo. I gialli la appassionano?
Li adoro. Non sono capaci di scriverli, ma mi piace moltissimo leggerli, per questo ho scelto che scrivessero questo genere letterario.
Parlando di scrittura, lei ha esordito con un racconto pubblicato nel «New Yorker», nel 1984. Racconto vs. romanzi, che rapporto ha con l’uno e con l’altro?
I racconti sono come un love affaire, poco impegnativi e molto piacevoli. I romanzi sono come un matrimonio, richiedono un altro tipo di impegno. A proposito del «New Yorker», c’è un fatto buffo: dopo quella prima pubblicazione non ho più scritto per loro, se non qualche settimana fa, vent’anni più tardi. La parte buffa è che, per la prima pubblicazione mi avevano pagato una fortuna insperata per quei tempi, ora, invece, la paga è rientrata nella totale norma.
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