Hape Kerkeling, l’infanzia “All’aria aperta” di un comico
Illuminante, si potrebbe definire l’incontro avuto con Hape Kerkeling, a Milano in occasione di Bookcity e per la presentazione del suo secondo romanzo, All’aria aperta, edito in Italia da Corbaccio, nella traduzione di Alessandra Petrelli. Illuminante è la parola giusta anche per descrivere il romanzo stesso, un’autobiografia del famoso comico tedesco in cui narra i suoi primi dieci anni di vita.
Parla perfettamente italiano, Hape Kerkeling, perché lo studia da decenni e perché passa sei mesi all’anno in Umbria, questa è stata senz’altro la prima cosa che ha colpito i blogger riuniti per l’incontro con l’autore organizzato da Corbaccio. La seconda cosa che ha colpito – e qui parlo personalmente – è stata la totale apertura e la gentilezza con le quali Kerkeling si è posto con i suoi intervistatori.
La scrittura è un prosieguo della sua carriera di attore comico?
In un certo senso, sì. Anzi, è un ritorno alle radici. Le mie prime apparizioni sul palco mi hanno visto seduto a un tavolo mentre leggevo i miei testi, solo dopo sono arrivati i registi che mi hanno detto di dovermi vestire in un certo modo, di stare in piedi in un determinato punto del palcoscenico e tutto il resto. Ritorno a un modo essenziale di presentare la mia arte.
Come mai ha deciso di scrivere un libro autobiografico. Meglio ancora, come mai ha scelto di scrivere della sua infanzia e non dei grandi incontri che ha avuto, come per esempio con il Dalai Lama?
Ho fatto il comico per trent’anni, per cui ho detto basta, sono arrivato al punto massimo, era giunto il momento di provare a fare altro. Perché la mia infanzia? Perché di incontri con figure celebri credo che il pubblico abbia già letto, mi era sembrato più autentico parlare dei miei primi dieci anni di vita.
A proposito di comicità, far ridere è difficile, il pubblico è eterogeneo, qual è il segreto per riuscire a strappare un sorriso a qualcun altro e a se stessi, qualsiasi sia la situazione che viviamo?
Ciò che cerco di fare è quello di specchiare le loro realtà, imitando certi caratteri o inventandoli. Quando ci si guarda allo specchio riesci a ridere mentre ti domandi “ho fatto così?”. La risata è liberatoria e permette di comprendere.
La sua carriera l’ha portata spesso a nascondersi dietro a maschere, trucchi e travestimenti, ora invece si spoglia di tutto, come ha vissuto questa esperienza?
In Germania mi sono nascosto dietro a maschere e questo mi ha dato la possibilità di muovermi con più facilità. Nel romanzo sono un equilibrista senza reti. L’attività non è altrettanto semplice, per cui in Germania ho incontrato alcune difficoltà. Dal canto suo, l’Italia è il primo Paese che traduce il mio libro, e trovarmi oggi con voi a parlare del mio romanzo mi fa sentire uno scrittore. Naturalmente, il pubblico italiano non mi conosce come comico, quindi perdo, in un certo senso, questa dualità che rende le cose molto più facili.
Parlando di travestimenti, a un certo punto nel suo romanzo dice che, nel momento in cui un personaggio da lei inventato non la porta più da nessuna parte, lo rinchiude in una valigia, senza alcun rimpianto, diventando così pronto per proseguire verso un nuovo orizzonte. Qual è il peso di immedesimarsi in altri personaggi e poi metterli da parte?
Quando invento un personaggio, ho anche la voglia di interpretare quel determinato personaggio. Per esempio ho interpretato un vice caporedattore di una piccola testata provinciale, per lo più brillo, ma che si crede grande. Era un piacere impersonarlo, ma dopo sette anni, e dopo un successo enorme, non ero più libero di interpretare il ruolo, era il pubblico che determinava il comportamento del personaggio. L’ho chiuso, anche perché non aveva margini per un’ulteriore evoluzione.
All'aria aperta è un libro commovente che ruota molto intorno alla figura della donna. A quale delle donne di cui parla nel libro si sente più legato in assoluto e come descriverebbe la Vita in una parola ripercorrendo tutto quello che è stato il suo vissuto, la sua infanzia?
Rispondo alla seconda: nonostante tutto bisogna mantenere il sorriso sulle labbra, a volte basta un sorriso per salvarci. Abbiamo scacciato il mondo con una risata, dico a un certo punto nel libro. Ridere può sembrare un modo di scappare, invece non lo è, è solo un’altra prospettiva. La donna alla quale mi sento più legato? È mia nonna. La morte non ci ha divisi, spesso la sento presente, vicina a me, con la sua serenità.
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I suoi personaggi sono reali e romanzeschi, crede che questi personaggi possano avere una vita in un romanzo futuro?
Sì, credo proprio di sì. Le mie nonne sono tuttora parte di me, del modo un cui certe volte mi approccio in una determinata situazione, quindi credo che possano trovare ampio spazio anche in un futuro lavoro letterario.
Nel romanzo si parla anche della sua omosessualità: com’è stata vissuta nella sua famiglia?
Nella mia famiglia non è mai stato un problema. Mia nonna paterna, come scrivo anche nel libro, quando avevo circa quattordici anni tirava già fuori l’argomento dicendo che io sarei rimasto celibe, che non mi sarei mai sposato. Allora mi domandavo come mai pensasse qualcosa di questo tipo, io, a quell’epoca, mi volevo sposare. In famiglia nessuno ha vissuto in modo problematico la mia omosessualità, la loro preoccupazione era rivolta verso il mondo esterno. Mi suggerirono, tra l’altro, di non rivelare questo fatto. Per un po’ ho accettato di seguire il loro consiglio, ma dopo non ho più voluto tenere nascosta la questione.
La malattia di sua madre, invece, non è stata accolta dalla società del tempo e dalla sua famiglia altrettanto bene. Crede che oggi le cose siano migliorate da questo punto di vista? Ora sappiamo definire la malattia di cui soffriva sua madre, è bastato per osare a parlarne liberamente e con beneficio?
A quei tempi effettivamente non c’era una parola, si era cupi, di malumore. Ora abbiamo una parola e una cura. Allora c’era tanta vergogna. È più semplice oggi, ma credo che quando questo accade in un nucleo famigliare le persone cerchino ancora di nascondere questo difetto, pur con le cure più accessibili. Solo attraverso la comunicazione si può uscire da questo cerchio infernale.
E di quella notte in cui la sua vita avrebbe cambiato corso inevitabilmente, cosa ricorda? Qual è la prima cosa che le torna in mente?
Il buio. Nulla. Forse avrei dovuto scriverlo nel libro, mi sono reso conto di questo solo dopo la pubblicazione. Spesso mi viene chiesto come si faccia a sopravvivere a un simile trauma. Può sembrare assurdo: lì c’è il buio.
Come ha reagito la famiglia leggendo il suo libro?
I protagonisti della storia sono morti. Mio padre ha letto e gli ha fatto bene leggere in modo cronologico quanto ci era successo. Mio fratello ha influito molto, ho tolto tanti punti che lui voleva restassero privati, ma mi ha sempre sostenuto. Gli amici stretti sapevano già la vicenda e anche da parte loro ho ricevuto il massimo sostegno.
Ha preso le distanze da quanto le è successo?
Sì, egoisticamente, mi ha fatto bene. Spero che il lettore possa sperimentare quanto sperimentato da quel bambino e trarre l’essenza che ha aiutato il bambino e farne tesoro, eventualmente.
Che rapporto ha con la lettura?
Ho un approccio sensuale con il libro, devo sentire il profumo. Vado in libreria e tocco i libri, li sfoglio, li annuso. Non leggo molto, ma quando leggo mi dedico profondamente.
Stilisticamente: è alla ricerca maniacale del dettaglio?
Sì. Persino dopo la pubblicazione, rileggendo, penso che magari ecco questa parola sarebbe stata ancor più calzante.
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