Giuseppe Pontiggia, le sue lezioni di scrittura creativa
Articolo pubblicato sulla Webzine Sul Romanzo n. 2/2014.
Parlando di scrittura creativa in Italia quello di Giuseppe Pontiggia non è certamente tra i primi nomi che vengono in mente. Una qualsiasi ricerca, oggi, fa emergere personaggi più in voga. Pensiamo ad esempio ai corsi “storici” di Alessandro Baricco, Laura Lepri, Giulio Mozzi, come anche a Raffaele Crovi e Vincenzo Cerami e ai loro consigli in forma saggistica. Tuttavia uno dei primi a far conoscere all’Italia quella che ormai è (o comunque meriterebbe di esserlo) una disciplina a sé stante, è stato un altro grande scrittore, scomparso da poco più di dieci anni. Un autore che, almeno in tema di scrittura creativa, è passato anche per sua scelta in secondo piano, fedele a una convinzione che non ha mai rinnegato.
Giuseppe Pontiggia (nato esattamente 80 anni fa, nel 1934, e morto nel 2003), autore di preziosi romanzi come sono, tra gli altri, Vite di uomini non illustri (Mondadori, 1993) e Nati due volte (Mondadori, 2000), saggista, critico letterario, collaboratore editoriale di numerose case editrici, è stato un grande docente di scrittura creativa. Un’attività, quest’ultima sua, che come si diceva rischia quasi di non lasciar traccia, proprio per un suo vezzo, o meglio, per quello che per lui era un assioma: l’inutilità dei manuali di scrittura. Diceva infatti di sé: «punto moltissimo sull’improvvisazione… mi piace il dialogo con il pubblico che mi sta ascoltando, per questo non ho mai scritto manuali, perché non credo, perlomeno per quanto mi riguarda, ai manuali. Invece per me è molto importante sentire la presenza viva degli interlocutori».
Non credeva nei manuali, eppure l’autore di La grande sera (Mondadori, 1989; romanzo che peraltro risultò vincitore del premio Strega nello stesso anno) ne avrebbe avute molte, di cose da scrivere, su questo tema. Per vent’anni infatti, dai primi anni Ottanta al Duemila, Pontiggia fu protagonista di quelli che si potrebbero considerare come i primi corsi di scrittura creativa in Italia. A lui si ispirarono in molti (sebbene pochi oggi abbiano l’onestà intellettuale di ricordarlo), soprattutto alla sua avventura al Teatro Verdi di Milano.
Al Teatro Verdi di via Pastrengo 16, Pontiggia operò dal 1985 al 1996 con corsi di varia tipologia, che duravano da un’ora e mezza a tre ore e mezza. Attività di cui rimangono tracce indirette nel Fondo Giuseppe Pontiggia organizzato ora all’interno della Beic, la Biblioteca europea di informazione e cultura, nella sede di Vigevano della Biblioteca Nazionale Braidense.
Ma non è tutto, poiché Pontiggia portò la sua esperienza e il suo insegnamento amichevole un po’ in tutta la Lombardia, così come a Ferrara, Reggio Emilia, Torino, Trento e nella Svizzera italiana. Dal 1988 al 1993 arrivò persino a insegnare scrittura creativa, pur se declinata nel senso di una comunicazione scritta efficace, ai manager che frequentavano un suo corso tenuto all’Università Luigi Bocconi di Milano. Corsi al termine dei quali non chiedeva mai agli allievi di ripetere quanto aveva detto, questo perché «mi interessa mobilitare la sensibilità, attivare l’attenzione, piuttosto che circoscrivere una materia così mobile in frasi ripetibili», perché «Bartolomé de La Casas diceva che il compito di ogni vera educazione è di liberarci da quella che abbiamo ricevuto. Il compito che ci presenta la vita è uno: scoprire la necessità di liberarci di una educazione passata».
Ora, per carpire qualcosa di più dei contenuti dei corsi di Pontiggia, si potrebbe partire da quell’«io non incoraggio mai a scrivere, cerco di avvicinare ai problemi di chi scrive e a prenderne distacco» che lo stesso scrittore dichiarò in un’intervista al settimanale «Panorama» nel 1985[1], mostrando di aver le idee chiare fin dall’inizio.
Partiamo dall’inizio[2], appunto. Da dove era partita questa curiosità di Pontiggia per i “problemi dello scrivere”? Nel corso della prima puntata di una trasmissione radiofonica di cui più avanti parleremo, è lo stesso scrittore a raccontare che tutto ha avuto origine dalla frustrazione provata per il lavoro come impiegato del Credito italiano, scaturita poi nella sua prima opera, la raccolta di racconti La morte in banca (Quaderni del Verri, 1959). Entrato in banca a 17 anni per esigenze famigliari, Giuseppe Pontiggia si vede subito proiettato in «un mondo di adulti che… mi ha indotto a un ripensamento della mia condizione e della mia ambizione di scrivere». Una frase rivoltagli da un collega più anziano («tu ormai sei un fallito come noi, non farai mai niente») scatena evidentemente qualcosa in lui che lo spinge a correre da Vittorini con sotto il braccio le bozze dei suoi racconti.
«Vittorini mi ha dato l’incoraggiamento decisivo – ricorda Pontiggia –, mi aveva detto ‘lei deve lasciare la banca, dedicarsi alla narrativa, avere il tempo e la concentrazione per dedicarsi alla narrativa’. Vittorini mi ha soprattutto indicato le parti (del testo) che non andavano: le recensioni di sentimenti: gli sembrava che, aveva la sensazione che… trovava che fossero dei dettagli analitici che interrompevano il ritmo dell’azione. Trovava invece interessanti gli elenchi delle cambiali, i dialoghi, le scene riprese dal vivo. Questa sensazione che il testo avesse parti buone e non buone, punti di forza e punti di debolezza, tutte queste sensazioni sono legate a questo primo rapporto con lui».
Da Elio Vittorini Pontiggia apprende che «il testo è qualcosa di misterioso e di indecifrabile, ma al tempo stesso è anche qualcosa su cui si può lavorare». E questo è l’insegnamento che, molti anni dopo, «ho cercato di trasporre … nei miei corsi».
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Al di là della spinta di Vittorini il giovane impiegato ha tuttavia dimostrato di avere grande coraggio. Una delle qualità che lui stesso, anni dopo, riconosce tra quelle che deve assolutamente avere uno scrittore. «Uno dei personaggi “non illustri” (racconta citando quello che, nel 1994, era il suo ultimo libro pubblicato) è una insegnante che ha coltivato per tutta l’esistenza l’ambizione di scrivere, ma l’ha dovuta posporre a tutta una serie di cose. Alla fine riuscirà a pubblicare, ma non riuscirà a soddisfare l’ambizione, anche per una mancanza di coraggio... Scrivere richiede molto coraggio, la necessità di vincere le proprie paure, le proprie inibizioni, il fallimento». Certo, poi il coraggio da solo non basta: «l’acquisizione di una tecnica è indispensabile», ma «la tecnica non è sufficiente. Faccio l’esempio del conservatorio – continua Pontiggia –, chi l’ha frequentato può avvicinare uno strumento, ma solo se ha attitudini particolari può diventare un grande direttore d’orchestra».
Ma per Pontiggia scrittori si nasce o si diventa? «Una prima risposta è che non ho mai conosciuto nessuno che sia nato scrittore, ma persone che sono diventate scrittore attraverso un percorso duro e faticoso. Un percorso ben lontano dall’aggettivo “creativo”. Il piano dell’eccellenza (nella scrittura) è riservato a chi ha delle attitudini specifiche, ma un grado di una comunicazione scritta efficace può essere raggiunto anche da tutti quelli che si applicano con tenacia. Lo scrivere è una tecnica che può essere imparata» pur se, precisa ancora Pontiggia, «il risultato artistico pieno è un’avventura che non si può programmare, altrimenti ogni scrittore avrebbe risolto i tutti i suoi problemi».
Ne emerge un’idea della scrittura vista come un processo in gran parte misterioso, un atto che genera un testo che spesso “ne sa di più” del suo autore stesso. Uno dei motivi per i quali Pontiggia non ha mai scritto un manuale è perché in realtà non esistono regole univoche da insegnare per scrivere, tantomeno per scrivere bene. Tuttavia agli scettici che gli chiedono se si può davvero imparare a scrivere, egli risponde ponendo un’altra domanda: «si può scrivere senza avere imparato? Leggendo ci si rende conto di errori, di stridori, di eccessi verbali in quello che viene scritto. La lettura ci porta a riflettere che è necessario un apprendistato severo, costante».
La lettura. Un altro tema importante per Pontiggia, che nel corso della sua vita ha costruito attorno a sé una biblioteca da oltre 35mila volumi. «Dobbiamo difendere la lettura come esperienza che non coltiva l’ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata. Una lettura concentrata, amante degli indugi, dei ritorni su di sé, aperta più che alle scorciatoie, ai cambiamenti di andatura che assecondano i ritmi alterni della mente». Perché tutto, soprattutto per chi ama scrivere, parte dalla lettura. Per questo durante le sue lezioni Pontiggia usa spesso le citazioni, da Alessandro Manzoni a Las Casas, da Pablo Picasso a Giacomo Manzù, da Joseph Roth a Andy Warhol, da James Joyce a Marcel Proust, in un susseguirsi di riferimenti multidisciplinari utili a trattare, di volta in volta, un preciso “problema della scrittura”, così lo chiamava Pontiggia, sempre pronti a cogliere «quello che si può ottenere con una frase aggiungendo o togliendo un aggettivo»[3].
Di Pontiggia, si diceva, non si trova alcuno scritto su teorie, tecniche o anche solo suggerimenti rivolti a chi ha intenzione di cimentarsi con la scrittura. Fortunatamente restano le registrazioni di interviste e di una serie di lezioni tenute alla radio.
Dopo quasi tre lustri di corsi di scrittura, infatti, al nostro autore venne proposto dalla Rai un ciclo di trasmissioni radiofoniche. Accettò con entusiasmo, contento di incontrare un pubblico silenzioso come quello della radio. Nacque così Dentro la sera – Conversazioni sullo scrivere, venticinque incontri radiofonici con Giuseppe Pontiggia in onda su Radio Rai nel 1994 (dal 9 di giugno all’11 luglio)[4]. Sono queste lezioni, forse, gli unici documenti diretti (è, infatti, sempre il solo Pontiggia a parlare) che oggi ci rimangono sul suo modo di “insegnare” (un termine che lo farebbe, con molta probabilità, inorridire) la scrittura creativa. Venticinque sere (la trasmissione iniziava alle 18 e durava sino alle 18.45 circa con un paio di intermezzi musicali) durante le quali l’autore ha sviscerato altrettanti temi legati allo scrivere.
E proprio sul finire dell’ultima puntata di questo ciclo di trasmissioni, Giuseppe Pontiggia dà probabilmente il suo consiglio più importante, che trascriviamo qui di seguito:
«Per imparare il linguaggio narrativo non c’è cosa migliore che studiare il modo in cui lavorano gli scrittori ispirati. Ecco, uno scrittore come Roth, che ha scritto un’opera come questa [La leggenda del santo bevitore, ndr] è uno scrittore che ha questo potere di farci amare la peripezia, il vagabondaggio, l’avventura, il fallimento, ci lascia arricchiti dalle disavventure dei suoi personaggi. Una delle strade che si possono percorrere, per imparare a scrivere, a migliorare nel linguaggio narrativo e in generale nel linguaggio scritto, è quello di leggere i grandi scrittori, di vedere gli errori che evitano, gli errori in cui potrebbero incorrere se usassero parole che noi mettiamo arbitrariamente. Vedere come tutto l’effetto è affidato ad un uso sapiente, calibrato, preciso e imprevedibile del linguaggio». Lo stesso uso sapiente, preciso e calibrato che ne fa Giuseppe Pontiggia, invitandoci a continuare ad ascoltare le sue lezioni leggendo i suoi libri.
Leggi gli altri articoli pubblicati sulla Webzine Sul Romanzo n. 2/2014.
[1]M. Grassi, Quinto: non scrivere, «Panorama» del 22 dicembre 1985.
[2]L’inizio, ma inteso stavolta come incipit, è anche il tema di un’intervista a Pontiggia inserita nel volume L’officina del racconto, a cura di Giovanni Francesio, Nuova compagnia editrice, 1996.
[3]Intervista a «Panorama», cit..
[4]Da queste lezioni, disponibili in Podcast, sono tratti i brani citati in questo articolo (tranne laddove diversamente indicato). Parole pronunciate da Giuseppe Pontiggia, frasi la cui forma è stata solo in alcuni casi, e solo leggermente, modificata, per colmare alcune lacune del parlato che avrebbero potuto stridere con la forma scritta.
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Commenti
Mi piace il Suo pezzo. Grazie di averlo scritto e di aver ricordato il grande Giuseppe Pontiggia.
Mi permetto solo una precisazione: Raffaele Crovi fu il primo a tenere corsi di Scrittura creativa al Teatro Verdi, e fu lui a volere Pontiggia come suo successore. A sua volta Pontiggia, quando dovette lasciare, chiamò Laura Lepri.
Cordialmente, Daniela Marcheschi
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