“Gin tonic a occhi chiusi” di Marco Ferrante, il declino della borghesia a ritmo di cocktail
Marco Ferrante, autorevole giornalista economico, è attualmente vice-direttore del Tg La7, dopo aver lavorato in diverse testate giornalistiche ed aver curato per Rai5, qualche anno fa, il programma dal titolo Icone.
Giunti ha da poco pubblicato il suo nuovo romanzo, Gin tonic a occhi chiusi, un libro che sta riscuotendo notevole interesse di critica e di pubblico. La vicenda è ambientata nella Roma dei nostri giorni, per essere più precisi: la Roma dei signori, di chi ha soldi e potere (in quantità variabile e in relazione naturalmente al ruolo che ciascuno ricopre nella società). Non è la versione letteraria de La Grande Bellezza (come qualche recensione vorrebbe far credere), ma piuttosto una sorta di kammerspiel tragi-comico sulle debolezze e le ipocrisie delle élite.
Protagonista del libro è una famiglia, la famiglia Misiano. A capo della famiglia è Elsa, la matriarca, la donna che tutto vorrebbe muovere, a partire dalle vite dei suoi tre figli: Gianni, Paolo e Ranieri. Gianni è un finanziere contabile, Paolo un deputato (non viene citato il partito, come a dire che, eccetto ali estreme e grillini, tutto il resto dello schieramento politico si rassomiglia molto), mentre Ranieri fa il giornalista. Si respira aria da “Fine Impero”, da “Ultimi giorni di Pompei” in questo romanzo: quella che una volta veniva definita classe dirigente (se ancora si può definire classe quella descritta da Ferrante) è oramai alla canna del gas, sfiancata da una “noia moraviana” e incapace di prendere in mano il suo destino. Così ci si affida al denaro, alle cose («non ci sono dolori più grandi di quelli che ci infliggono le cose») per continuare a fingere di vivere una vita autentica; ma anche il denaro, in un momento qualsiasi della vita, può scomparire e allora la nave affonda lentamente ma irreparabilmente nel gin tonic, senza che nessuno abbia il talento, l’inventiva, ma soprattutto la voglia di fare alcunché, con la musica dell’orchestrina del Titanic a far da sottofondo.
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Uno dei simboli di questa vera e propria impotenza dell’agire è Paolo Misiano, il secondogenito della famiglia, il deputato: un’impotenza che non riguarda la sfera sessuale (Paolo ha in totale cinque figli, con un alto “tasso di astensione” sulle vite dei piccoli, trascurati dal padre), ma il suo agire “pubblico”, la sua relazione col mondo. È posseduto dall’insicurezza, instillata dalla madre, e non riesce a dare un corso consapevole alla sua vita. Il problema di Paolo, come di tutti gli uomini di Gin Tonic a occhi chiusi, è che non è in grado di prendere delle decisioni definitive («ho avuto paura», dice a un certo punto Gianni), e quindi sono “agiti” dalle donne, le uniche ad avere un briciolo d’iniziativa in più; d’altronde, come scrive Ferrante all’inizio del libro, molto di quello che leggeremo è colpa proprio della matrona, Elsa Misiano, che si diverte a mettere l’uno contro l’altro i suoi figli, quasi convinta dell’importanza delle “leggi della diseguaglianza” anche in campo affettivo. A farle da debole controcanto il marito Edoardo che per tutta la vita è stato troppo occupato dal lavoro e dall’imperativo di non far mancare niente alla famiglia.
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Gli uomini vanno a rimorchio, si trascinano dietro le gonne delle donne (in tutti i sensi), sempre a un passo dalla definitiva inaffidabilità. È Paolo, «sentimentalmente e psicologicamente instabile» che viene mollato dalla moglie, la quale viene a scoprire del suo scandaletto sessuale con Teresa Sasso, l’amante che gli sconvolgerà la vita e da cui avrà poi una figlia. Sarà quindi di nuovo la moglie a prendere l’iniziativa, a farlo ritornare nel suo talamo matrimoniale e Paolo, “perdonato”, non potrà fare a meno di rientrare in casa con la coda tra le gambe. Ranieri Misiano, il “furbo” giornalista, considerato dagli altri fratelli uno “stronzo”, non riesce “a lasciare un segno”, neanche a mettere incinta la sua amante.
Questi personaggi sono, in qualche modo, la versione social e 2.0 dell’uomo senza qualità musiliano. Anzi, si potrebbe dire che i Misiano sono l’estrema parabola, dal punto di vista sociologico, di quella classe sociale, la famosa borghesia, che già ai primi del Novecento balbettava costernata di fronte al Caos del mondo e si prendeva una vacanza dalle responsabilità dell’agire, aprendo le porte a conflitti mondiali e totalitarismi. Oggi la situazione è più ridicola, ma uno spettro autoritario e barbarico si aggira tra le rovine della civiltà occidentale e le élites alla Misiano non hanno da opporre nessuna capacità di difesa, nessuna resistenza, attardandosi nei loro futili passatempi. L’unico ad avere ancora una coscienza del proprio ruolo nella società è proprio Edoardo, il padre dei tre fratelli, che alla fine del libro compie una scelta non facile a favore del figlio Paolo: una scelta fatta solo per non nuocere alla sua carriera politica. «Che fatica, tenere insieme gli altri», scrive a quel punto Marco Ferrante.
È proprio questa la grande sconfitta della borghesia: una volta c’erano le grandi famiglie che erano tenute insieme, se non dai legami sentimentali, almeno da quelli economici. Ora è tutto lacerato, tutto slabbrato. L’ordinato formicaio è stato distrutto da un piede dispettoso e le formiche vanno girando intorno senza una meta precisa, senza un disegno consapevole, con l’odio e l’invidia per l’altro unico tratto distintivo della specie («Dovremmo trovare il modo di essere tutti uniti, tutti una cosa sola. Ma non ce la facciamo»). A questo punto cosa volete che rimanga? Soltanto la magra soddisfazione di preparare un bel gin tonic. A occhi chiusi.
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