François Truffaut: a trent’anni dalla morte è sempre l’uomo che amava il cinema
A trent’anni dalla sua morte, avvenuta il 21 ottobre 1984, François Truffaut è sempre l’uomo che amava il cinema per antonomasia. Lo amava di un amore supremo, senza riserve.
Accorato e nostalgico, il cinema di Truffaut è ancora «il ritratto di quella infelicità sommessa che rifiuta i grandi impegni pur non sottraendosi mai alla responsabilità dei sentimenti» (Fernaldo Di Giammatteo).
A cominciare dal suo primo lungometraggio, I quattrocento colpi (1959, vincitore del premio alla regia a Cannes): Antoine Doinel è un ragazzo isolato, riottoso, sfrenato ma soprattutto profondamente infelice, alter ego dell’infanzia trascurata e apatica vissuta dallo stesso regista che fa dell’interprete-protagonista, Jean-Pierre Léaud, più che il suo attore feticcio un vero e proprio alias, seguendone letteralmente la crescita attraverso cinque film successivi (il cosiddetto “ciclo di Doinel” che comprende, oltre a I quattrocento colpi, anche Antoine e Colette, episodio de L’amore a vent’anni; Baci rubati, Non drammatizziamo… è solo questione di corna, L’amore fugge), che racconta le tappe di una crescita inquieta, specchio della maturazione del vero Truffaut tra tortuosità famigliari e amori accidentali.
Questa sorta di malinconia che accompagna Antoine/François, e che non è disperazione quanto piuttosto tedio, spleen, è l’atmosfera che accomuna gran parte della cinematografia del regista. Anche quando si prova in generi diversi, come il noir (è il caso di Finalmente domenica!, il suo ultimo film prima di morire, 1983), il giallo (La mia droga si chiama Julie, 1969) o il gangster movie (Tirate sul pianista, 1960). Malinconia che trasuda fino al dolore in Adele H. Una storia d’amore (1975), si compiace di se stessa in L’uomo che amava le donne (1977), si strugge ne Gli anni in tasca (1976) e tocca l’apice del narcisismo in quel capolavoro assoluto che è Jules e Jim (1962), che si apre con una battuta che è quasi un verso: «M’hai detto ti amo. Ti dissi aspetta. Stavo per dirti: eccomi. Tu hai detto vattene», e si chiude con Jules dinanzi alle bare di Jim e Catherine dopo che questi si sono spinti verso lo strapiombo; una scena che potrebbe evocare la tragedia e invece celebra solo un poetico distacco, la normale accettazione della morte nello stesso modo in cui tutto il film aveva officiato il disincanto di un amore a tre, senza retorica né ridondanze.
Questa sorta di tenerezza, o di umanesimo secondo alcuni, che segue la cinematografia di Truffaut, segnano altresì la differenza dalla rivoluzione formale attuata dalla Nouvelle Vagueper cui il cinema è innanzitutto «filosofia fenomenologica o esistenziale» (Merleau-Ponty). Differenza, non distanza. All’interno della Nouvelle Vague, la cui sintassi cinematografica pure contribuì a fondare e continuò sempre a difendere, François Truffaut rappresentò, tuttavia, una voce singolare, «une certaine tendence», meno direttamente impegnato di un Godard o di un Resnais ma altrettanto appassionato, votato alla ricerca di una struttura e di una tecnica capaci di scrivere con le immagini e non solo per immagini, fare del cinema una lingua e non solo un linguaggio. E irrilevante, o quanto meno più flebile di quanto si è soliti attribuire, è il peso dell’estrazione letteraria di questi e degli altri autori della corrente, il loro provenire dalle fila della critica e la collaborazione ai Cahiers du Cinéma. Senza ripercorrere nel minuto il percorso della Nouvelle Vague, basterà dire che più urgente è in questa nuova messe di registi la volontà di esprimere qualcosa in assoluta libertà, secondo forme estetiche non ancora sclerotizzate come nel cosiddetto cinéma des papas. Il che non includeva rifiutare in blocco il cinema né del passato né del presente. Al contrario, la loro ispirazione traeva linfa proprio da una serie di modelli positivi che vanno da Renoir a Rossellini, da Fritz Lang a Howard Hawks.
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Per François Truffaut il modello per eccellenza è Hitchcock. È dunque impossibile non ricordare, in limine, un libro (tra i tanti che egli scrisse), un manuale per cinefili, un vero e proprio romanzo di formazione umana e tecnico-cinematografica quale è Il cinema secondo Hitchcock (prima edizione: Nuove Pratiche Editrice, 1997, attualmente per i tascabili de Il Saggiatore, nella traduzione di Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto), il cui scopo – è lo stesso Truffaut ad affermarlo nella prefazione – era dimostrare come il cinema poteva accendere «una passione esclusiva, un’emotività estrema» secondo la migliore tradizione dei più grandi romanzi.
Romanzi la cui transcodificazione in pellicola non è estranea alla lunga e complessa filmografia truffautiana. Si pensi, solo per restare nel perimetro della letteratura più universalmente conosciuta, a Fahrenheit 451 (1966): i titoli di testa sono presentati a voce, privi di grafica, perché agli spettatori è vietato leggere al pari dei personaggi dell’omonimo testo di Bradbury, in una prodigiosa fusione tra codice narrativo e codice cinematografico. Anche questa è Nouvelle Vague, e tuttavia lo smarrimento di Montag, la sua ineludibile solitudine, sottolineata sin dalle prime scene (lo schermo ce lo mostra in una sopraelevata, insieme a passeggeri altrettanto indolenti per i quali un riflesso nel finestrino diventa quasi un incontro col proprio corpo, un lenitivo al senso di dilagante isolamento) portano l’inconfutabile firma del regista. Le atmosfere distopiche del romanzo si confondono con la delicata malinconia del cineasta francese secondo un equilibrio perfetto.
Scriveva Morando Morandini a proposito della morte di François Truffaut: «Più passa il tempo dopo la sua morte, più crescono il vuoto e l’affetto della sua assenza». Il vuoto resterà sempre incolmabile, l’affetto lo dimostrano alcune iniziative intraprese in occasione di questo trentennale, come la retrospettiva dedicata al regista dalla Cinémathèque Française insieme a un’esposizione di cimeli, oggetti, libri, appunti; il restauro e redistribuzionein sala de I quattrocento colpi da parte della Cineteca di Bologna a partire dallo scorso 25 settembre, mentre allo stesso film è ispirato il manifesto della 71° edizione dell’ultima mostra internazionale del cinema di Venezia.
L’assenza, invece, è come il vuoto: a trenta, e forse pure a cent’anni di distanza dalla morte di un mito della cinefilia come François Truffaut, è impossibile sottrarsi al ricordo dell’uomo che amava e sempre e solo amò il cinema.
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