Fare breccia nelle false certezze sugli anni di piombo. Intervista ad Alessandro Perissinotto
A quattro anni da Le colpe dei padri, Alessandro Perissinotto ritorna in libreria con una nuova storia incentrata sugli anni di piombo: Quello che l’acqua nasconde, sempre edito da Piemme.
Dal manager di successo Guido Marchisio al genetista famoso in tutto il mondo Edoardo Rubessi, Perissinotto riesce ancora una volta a porre al centro della narrazione un’esistenza singola che va a scontrarsi con uno degli aspetti più controversi della storia italiana, uno dei momenti che più tendiamo a dimenticare, a porre fuori dal raggio di azione della nostra memoria.
E proprio di questo abbiamo voluto parlare con Alessandro Perissinotto.
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Perché considera le storie che le persone le raccontano «patrimonio immenso di umanità»?
Perché è così che ormai anche l’Unesco considera lo storytelling: un patrimonio immateriale. Le storie sono ciò che la gente comune lascia in eredità alle generazioni future. I grandi architetti lasciano palazzi, i grandi ingegneri lasciano gallerie e ponti, noi, gente comune, lasciamo storie.
Uno degli slogan usato durante gli anni di piombo era “il proletariato non perdona i propri torturatori”. Le stragi e gli attentati di quegli anni sono serviti per ribellarsi ai “torturatori” oppure erano solo il passatempo preferito dei «figli di papà dei centri sociali»?
All’epoca non si parlava di “Centri sociali” (se non forse per il Leoncavallo a Milano). Il terrorismo si è rivelato fallimentare (e non poteva che essere così) su tutti i fronti; non possiamo in alcun caso dire che attentati e stragi sono “serviti a qualcosa”. Nondimeno, rivedendo a distanza quei momenti, possiamo provare a capire quali furono gli elementi che scatenarono le tensioni e capire il passato non è mai inutile.
Negli ultimi tempi si sta sempre più affermando la tesi secondo cui, dietro la strategia della tensione, conseguenza della strage di piazza Fontana, ci sia stata «una mente britannica». Penso, ad esempio, a Colonia Italia (Chiarelettere, 2015) di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella. In che modo una tale versione dei fatti, potrebbe impattare secondo lei sull’interpretazione dei fatti e delle loro conseguenze?
L’unico vero impatto rilevante sarebbe quello della verità. Mille ipotesi non cambiano la visione di quella strage, una sola certezza la stravolge. Ci risentiamo nel momento in cui la tesi diventa certezza.
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In Italia invece di indagare, scavare e ricordare sembra si sia preferito collettivamente rimuovere quel che è stato. Perché degli anni di piombo non si fa quasi mai menzione sia in ambito scolastico che fuori da esso?
Non è solo un fenomeno italiano, tutti i paesi che hanno vissuto periodi traumatici hanno la tendenza a rimuovere. Francia e Germania vissero il terrorismo con un’intensità pari alla nostra, ma ne parlano ancora meno; i paesi latinoamericani cercano di dimenticare le loro dittature e le loro stragi. È normale, fisiologico: per questo diventa così importante il lavoro di recupero della memoria, ed è per questo che la mia scrittura, negli ultimi anni, si è concentrata proprio su questo.
Anche il protagonista di Quello che l'acqua nasconde, Aldo Abrate, è costretto a fare i conti con una realtà dei fatti molto diversa dalla versione che la sua mente aveva prodotto. Alla fine non è solo Edoardo a rivelarsi diverso ma l'intera vicenda che li ha visti in vario modo coinvolti. Quanto accaduto ad Aldo potrebbe succedere a chiunque si ritrovi a “conoscere” le verità di quegli anni?
Quello della mistificazione del proprio passato è un tema che mi affascina da sempre. Io credo che tutti noi, in misura maggiore o minore, trasformiamo il nostro passato, il nostro vissuto, in una narrazione: enfatizziamo un incontro, mitizziamo un avvenimento, ci dipingiamo, nella memoria, come avremmo voluto essere. Nella vita di Edoardo questo avviene sulla spinta di forze esterne, molto potenti, sulla base di eventi drammatici: per fortuna, questo non accade a tutti.
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Si dice che spesso bisogna scendere a compromessi con la propria coscienza e scegliere il male minore per sé o per gli altri. Anche Edoardo Rubessi lo fa mostrandosi così per quello che realmente è ad Aldo che, fino a quel momento, lo aveva mitizzato. Può in questo scorgersi una chiave di interpretazione del silenzio e delle mezze verità raccontate agli italiani in merito alle stragi e agli attentati?
No. Nessuna scusante per le mezze verità di Stato, nessuna strategia del “male minore” per le istituzioni. Io presento personaggi pieni di debolezze e difetti, perché questa è la natura umana; la natura di uno Stato è cosa ben diversa.
Oltre agli attentati ci sono altri fotogrammi che impressionano chi legge il suo libro. Mi riferisco ai manicomi e a quello che vi accadeva. Perché ha voluto raccontarlo?
La situazione manicomiale degli anni ’60 e ’70 e i suoi legami con la stagione di piombo costituiscono uno dei capitoli di un libro di storia rimasto chiuso per troppo tempo. A volte, il modo migliore per portare alla luce una pagina di storia dimenticata è quello di inserirla in un romanzo, di darle una nuova vita attraverso la narrazione. Io credo che lo scrittore debba essere sentinella e testimone, debba proiettarsi verso il futuro, ma produrre memoria. Per questo ho raccontato la terribile e purtroppo vera storia del manicomio infantile di Villa Azzurra.
Nel libro lei scrive che per «conservare la memoria non è necessario essere originali, l'importante è essere ostinati». Dopo Le colpe dei padri ha scritto Quello che l'acqua nasconde. La sua caparbietà servirà a far breccia per costruire e preservare una memoria e svelare qualche verità?
Il fatto che voi me lo chiediate costituisce già una piccola breccia attraverso cui passare per raggiungere la verità. Il silenzio e le false certezze sono il muro, le domande sono la breccia.
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