Fantasy postmoderno: un ossimoro?
[Nona puntata della Rubrica Nella pancia del drago]
Si sa, tutto può essere postmoderno: un’epoca, un racconto, un intero genere letterario; una lampada, una balaustra, una cassapanca, un elfo, etc. etc.
Ci sono cascato, sto parlando di postmodernismo. Mi ero ripromesso di non farlo, mai, nella mia vita. Non era neanche nella scaletta di questa rubrica. È saltato fuori con forza autonoma, volontà cosciente, postmoderna, oserei dire. Perché vedete, io faccio parte dei molti – come voi lì, che leggete con quel piglio postmoderno – che quando leggono o sentono postmoderno soffrono di un pericoloso tic nervoso al sopracciglio e balbettano. P-p-p-p-post c-cosa?
Sarà che vengo da comunissimi studi di Storia ma, da letterato ignorante quale mi reputo (se non altro per assicurarmi discreti margini di miglioramento), continuo per deformazione professionale a pensare il continuum storico in un dato modo: antico, medievale, moderno e… – hold your breath – contemporaneo. È da questa ingenuità concettuale – che causerà tic al sopracciglio ai critici di professione, sia difensori che detrattori del postmodernismo – che mi sono permesso di portare l’argomento all’attenzione gastrica del nostro drago. Fantasy e postmoderno, un ossimoro?
Chi parla di fantasy nella blogsfera contemporanea è solitamente allergico agli sproloqui critici sul valore simbolico-stilistico-acusmatico-urbanistico di questo o quell’altro autore o corrente letteraria. Di solito si preferisce parlare della conditio sine qua non che rende un’opera attribuibile al fantasy degna di essere letta: lo stile. La ragione è che il fantasy, essendo una letteratura che mira a narrare di mondi secondari in completa mimesi, affida la percezione della coerenza degli stessi alla continuità del Fictional Dream che, tramite uno stile ridondante o barocco, crollerebbe scaraventando il lettore indietro sulla poltrona di casa sua o, peggio, tra le pagine di un dizionario.
Ebbene sì, anche soltanto per questo motivo la letteratura fantasy come tutta la letteratura “di genere” si potrebbe definire la quintessenza del postmoderno. Lo so, lo so, è un brutto colpo per voi. Mettetevi comodi, fatevi una cioccolata, prenotate lo psicanalista, iscrivetevi a kick-boxing. La supererete, vi do la mia parola di redattore, insieme possiamo farcela. Postmodernisti anonimi, Sul Romanzo, ogni mese presso Nella pancia del drago, ore 12:00 giù di lì. Dopo un mesetto ricomincerete a visualizzare gli elfi senza la bandana e gli occhialetti di Foster Wallace.
Ma il postmodernismo non era quella cosa tutta stile e niente contenuti, tutta nuvolezze e sfarfallii e irriverenza saccente? Tipo un Futurismo senza punteggiatura e con le onomatopee “Burp!” – fece il drago. Molti ancora lo credono. Torniamo però a monte sia del fantasy che del postmoderno: il Modernismo. Nella prima metà del Novecento, mentre la letteratura riceveva il terremoto dei vari Joyce ed Eliot, dalle crepe si affacciavano lavori seminali quali The King of Elfland’s Daughter di Lord Dunsany (1924), precursori di quello che sarebbe stato, circa un ventennio dopo, “l’aureo Trecento” del fantasy, con Howard, Lewis e Tolkien.
Seppure Modernismo e Fantasy condividessero la stessa repulsione per le costrizioni narratologiche imposte dal Realismo, nonché uno dei tecnicismi fondamentali del fantasy contemporaneo – la parallassi (i cambi di PoV, per voi blogger-critici-facili), la critica modernista fu assolutamente impreparata a decifrare i pilastri del genere fantastico. Prima di tutto, il fantasy non rifiutava affatto la soggettività introspettiva del Romanticismo, e a questo univa l’anacronistico recupero della tradizione, dell’epica, del mito e del folklore. Questa estetica contribuì per la maggiore a farlo passare da subito come letteratura di intrattenimento e, perciò, bassa nel senso “popolare” del temine (per i lord modernisti). Il fantasy, bistrattato sia dal Realismo che dal Modernismo, pur non nascendo in sé come letteratura postmoderna ne incarnava così le istanze di rottura verso il gusto dominante.
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Nelle precedenti puntate si è visto come proprio tramite la maschera dell’intrattenimento il fantasy miri in realtà a trascendere il reale per mettere in contatto il lettore con degli archetipi di verità essenziali riguardo se stesso-essere umano. Questo ricorda molto la definizione che Jean-Francois Lyotard diede del postmoderno: «postmodern works stress the incommensurability of human existence» (The Postmodern Condition, 1984). In altre parole, come il postmodernismo anche il fantasy si colloca verso l’essere umano non più come letteratura epistemologica, che cerca cioè di svelare de facto l’episteme della condizione umana, ma ontologica, letteratura dell’essere punto e basta (McHale, Postmodernist Fiction, 1987), che tenta di congelare la particella uomo in uno dei suoi infinitesimali moti perché serva da lampo di comprensione sui restanti, destinati a rimanere ignoti. Esso è il what if dei maestri della fantascienza, è la meta-esistenza del Cyberpunk.
Ciò che Fantasy e postmodernismo condividono è una quest epica per salvare la realtà da se stessa. Diceva Foster Wallace:
[…] many of the writers I admire […] are interested in using postmodern techniques, postmodern aesthetic but being able, by using that, to discuss or represent very old, traditional human varieties that have to do with spirituality and emotion, and community […]
Wallace, che non scriveva fantasy, parlava di fantasy. Parlava di tutta la letteratura di intrattenimento di “genere” che tenta di salvare il reale dal baratro dell’ironia. Quel senso di impotenza nel non poter più prendere nessuna storia sul serio, il diktat dell’intrattenimento televisivo trincerato dietro il sarcasmo e «impermeabile ai tentativi di disarmo della letteratura» (Carlotta Susca, David Foster Wallace, nella Casa Stregata, 2012). Una lotta impari, che per essere sostenuta doveva mettere a servizio dei propri contenuti le stesse armi del nemico.
Ecco così il Re, l’altra faccia del postmoderno, quello Stephen King che svanisce dentro le proprie opere, lo stile che si lima al punto di divenire ciò che narra per non spezzare il Fictional Dream e mostrare, non raccontare (sounds familiar?), come e meglio di una televisione. Aramostre e mondi paralleli capaci con le loro serissime assurdità di dire al lettore di se stesso più di qualsiasi morale contemporanea.
Fantasy e postmoderno non sono un ossimoro. C’è chi tra le schiere di illustri critici si azzarda a definire l’intera letteratura contemporanea come al servizio dell’autenticità in un intellettualmente sobrio New Realism lontano dalle «evasioni di genere» (E.Docx). Personalmente credo che la contemporaneità letteraria, grazie anche alla rivoluzione dei serial TV e al mondo del fumetto, danzi ai fuochi e ululi alla luna invocando il Grande Cthulhu mai come in passato, e nel farlo si prenda intellettualmente e moralmente molto molto sul serio. Per i Grandi Antichi come per il postmoderno: «having no beginning, will have no end» (Clive Barker, Weaveworld, 1987). Alla prossima puntata.
Ci ritroviamo on line il 15/10/2013 con la puntata n. 9 e tre quarti della Rubrica Nella pancia del drago: Contenuto invisibile alla comunità non-magica.
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