Ecco perché scrivo romanzi storici. Intervista a Ben Pastor
Con La grande caccia (Mondadori, 2020 – traduzione di Luigi Sanvito) Ben Pastor torna a proporre uno dei suoi grandi personaggi seriali, Elio Sparziano, ispirato a una figura realmente esistita, ma di cui sappiamo pochissimo, se non che si trattava di uno storico, vissuto nel IV secolo dopo Cristo, che figura tra i compilatori della Historia Augusta, un’imponente raccolta di biografie degli imperatori romani tra il I e il III secolo dopo Cristo, da Adriano a Diocleziano.
Nella sua finzione narrativa, Ben Pastor ne ha fatto non solo uno storico e biografo, ma soprattutto un alto ufficiale dell’esercito imperiale, a cui vengono affidati incarichi di vario genere nell’Impero. Ed è nel corso di queste missioni che Sparziano si imbatte in eventi che lo costringono a condurre delle indagini personali, spesso risalendo a fatti e misteri irrisolti del passato, soprattutto quando il destino lo fa incontrare con lo storico nemico Baruch Ben Matthias, un mercante giudeo.
In questo nuovo romanzo, che arriva a diversi anni di distanza dai quattro volumi precedenti, Sparziano viene incaricato dall’imperatore d’Oriente Galerio di controllare il censimento degli inquieti cristiani della Palestina, che rifiutano di sottomettersi, anche solo pro forma, alla religione ufficiale dell’impero. Nello stesso tempo, gli viene affidata anche una missione segreta: cercare le tracce del favoloso tesoro dei Maccabei, di cui si sono perse le tracce due secoli prima ma che dovrebbe trovarsi nascosto da qualche parte sul territorio palestinese. Galerio vorrebbe impadronirsene prima di Costantino, l’ambizioso figlio del moribondo imperatore d’Occidente Costanzo che ha mandato in Palestina la madre Elena, contro cui Spaziano si troverà a combattere per arrivare a risolvere il mistero dell’oro scomparso. Abbiamo fatto qualche domanda a Ben Pastor sulla sua idea di romanzo che fonde i generi thriller e storico.
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Lei ha scritto molti romanzi storici ambientati in epoche molto lontane tra loro. Cosa l’aveva spinta a iniziare questa serie collocata nel tardo Impero Romano, e perché ha scelto proprio Elio Sparziano come protagonista?
La risposta è semplice: tra tutte le mie serie, ambientate nell’antichità, al principio della Prima guerra mondiale e durante la seconda, c’è qualcosa in comune: la fine di un’epoca, l’inizio di un’altra, l’amore tra le rovine, la fine dell’antichità e l’inizio dell’Europa delle nazioni con gli imperatori non italiani al potere, la cesura tra un Ottocento godereccio e un Novecento pieno di disastri e genocidi… Il IV secolo dopo Cristo, in cui vive Elio Sparziano, grazie ai miei studi di archeologia e l’affetto per il mondo tardo antico mi è sembrato un bel momento per raccontare una di queste fasi di passaggio.
Io vengo dal mondo accademico e grazie a questo tengo sempre un piede nella storia vera e uno nell’invenzione letteraria. Elio Sparziano è realmente esistito perché figura tra gli autori della Storia Augusta, che comprende le vite degli imperatori da Adriano a Diocleziano, vale a dire duecentocinquanta anni di storia romana.
Non si sa bene chi siano gli autori, ma di Sparziano si sa che per il suo modo di esprimersi era un militare, ma anche uno storico. Come uno storico, un investigatore deve avere un certo quoziente di curiosità per capire cosa c’è oltre la siepe. Il suo carattere di fantasia doveva essere attento alla psicologia, anche se non possiamo farlo pensare nei termini a cui ci ha abituato Freud. Il suo doveva essere un modo assai meno problematico di stare al mondo rispetto a oggi, ma condizionato dal suo ideale di romanità.
Questo libro esce a diversi anni di distanza dai precedenti volumi della serie. Come mai ha deciso di riprendere a raccontare questo personaggio dopo aver scritto tante altre storie?
In realtà me l’ha chiesto l’editore Mondadori, che ha ripubblicato i quattro episodi precedenti e mi ha chiesto se avessi voglia di continuare la serie. Elio mi è sempre stato simpatico, insieme con il suo antagonista Baruch Ben Matthias, che immagino come una specie di Woody Allen dell’antichità, perciò m’intrigava tornare a lui… Ho recuperato una storia che avevo già un po’ in mente, per continuare a raccontare le sue avventure tra il drammatico e il picaresco, in un periodo che rispecchia molto il nostro presente di fine del mondo e incertezza generale: allora la fine di un mondo romano centrico come oggi la fine di una centralità europea.
Quanto tempo le ha richiesto la stesura di La grande caccia, un romanzo impegnativo sia per contenuti, sia per dimensioni del testo?
Avevo dei limiti di tempo da rispettare, tra l’altro stavo lavorando a un altro romanzo che ho dovuto accantonare. Nonostante partissi avvantaggiata dal mio background archeologico e storico ho dovuto documentarmi parecchio sulla Palestina del IV secolo, popolata da etnie diverse ma forse con gli stessi problemi che vediamo ancora oggi nella Striscia di Gaza. Non è stato facile reperire certe fonti, come gli scritti di Eusebio, poi naturalmente c’è sempre Flavio Giuseppe, che è uno storico un po’ gossiparo, ma da cui ho preso le storie sul famoso oro dei Maccabei e su certe ricchezze che scompaiono. Ho impiegato diversi mesi lavorando contemporaneamente alla stesura e alla ricerca delle fonti per cercare di ottenere la massima precisione senza però appesantire il testo.
Come si ricrea il linguaggio dei personaggi antichi?
Abbiamo delle finestre preziose sul passato, che non sono solo le iscrizioni, anche se ho studiato tanto l’epigrafia all’università, ma soprattutto le corrispondenze: ci sono le centinaia di lettere scambiate tra Cicerone e i suoi familiari, da cui si evince il modo di essere in famiglia e con gli affetti, oppure quelle di Plinio il Giovane dirette a Traiano duecento anni dopo, che ci offrono un’altra visione. Poi naturalmente si deve modernizzare, perché il romanzo aulico oggi va stretto a tutti: ma già Manzoni è riuscito a rendere vivace il linguaggio del passato, se pensiamo a certi episodi dei Promessi sposi.
Si tratta di cercare di carpire quel modo di essere al momento che non sembri ammuffito, ma neanche slang contemporaneo: è un lavoro senza dubbio certosino, ma ci si prende la mano.
Qual è allora, secondo lei, la difficoltà maggiore che può incontrare uno scrittore che sceglie di dedicarsi al genere del romanzo storico?
In Italia si legge la storia molto meno che nei paesi anglosassoni, e si ignora molto del passato. Ci sono giovani che non sanno cosa sono state le “brigate rosse”, e vanno in visita con la scuola ai campi di sterminio ma non ne hanno un’idea precisa: ci vuole ben altro per avvicinarsi alla storia.
Ci si può chiedere perché scrivere del passato se a malapena conosciamo il presente, ma io credo che solo conoscendo ciò che è stato possiamo capire noi stessi e magari evitare errori. Anche il romanzo storico può fare la sua parte in questo. Credo che ci sia troppo interesse sul presente, che si scrivano troppi instant book.
Io mi trovo più a mio agio scrivendo “col senno di poi”: la vista posteriore mi fa mettere in una prospettiva migliore ciò che accade ai personaggi. Scrivo thriller storici perché in un panorama vastissimo di storie di genere è utile ricavarsi spazi non occupati. È difficile scrivere una storia di genere senza cadere in troppi cliché di personaggi e trama, per cui bisogna essere un po’ eterodossi e fuori dagli schemi, anche come via di fuga intellettuale.
Un giallista deve fare anche altro oltre a costruire una trama di genere: deve avere una qualità stilistica e cercare di vedere il suo protagonista investigatore senza troppi cliché, ma considerarlo come un essere umano immerso in un mondo suo, con una complessità personale al di là del crimine di cui si occupa.
Quanto è difficile per uno scrittore separarsi da un personaggio seriale, con cui ha convissuto per tanto tempo?
A volte, come ben sapeva Conan Doyle che voleva ammazzare il suo personaggio, è chiaro che diventa una specie di alter ego. Il mio dilemma è scrivere fino al momento in cui c’è qualcosa di nuovo da dire sul personaggio, perché se è sempre uguale puoi scrivere cento romanzi, ma se lo fai evolvere da un libro all’altro poi si arriva al punto in cui è meglio fermarsi e fare altro. Certo, poi possono esserci i prequel, che permettono di esplorare altri aspetti del personaggio, spiegando al lettore perché la storia è cominciata in un certo modo.
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C’è qualche altro periodo storico che la affascina in modo particolare e dove le piacerebbe ambientare una storia in futuro?
Ho un interesse per il mondo del milanese spagnolo del Seicento, al tempo della peste. Per famiglia sono imparentata da parte di padre con i Salazar, nobiltà spagnola collegata alla monaca di Monza. Ho scritto due novelle che hanno lei come protagonista a latere, ma raccontano di un capitano di giustizia, Diego Olivares, figlio di uno spagnolo e di una Arconati, che si occupa di stregoneria al tempo della peste.
L’altro periodo che m’interessa è la metà del XIII secolo, quando in Terra Santa ci sono i regni crociati, un periodo interessante e poco conosciuto: franchi, crociati italiani, tedeschi e inglesi si trasferiscono in Medio Oriente e i contrasti intraeuropei si riversano in un mondo dove ci sono anche i cavalierati saraceni, molto intriganti. Non ne so molto, per cui mi richiederebbe un grande lavoro di studio preliminare.
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Per la prima foto, copyright: Dario Veronesi su Unsplash.
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