E se si potesse vivere per sempre? “Suicide Club”, la distopia di Rachel Heng
E se in futuro si potesse vivere per sempre? Rachel Heng nel romanzo distopico Suicide Club, pubblicato dalla casa editrice Nord, con la traduzione di Francesco Graziosi, risponde all’interrogativo narrando le implicazioni pratiche e morali di questa ipotetica nuova realtà.
New York, in un non precisato futuro, è una metropoli come tante altre dove svettano grattacieli altissimi di quattrocento piani e oltre; la fisionomia dei distretti come la conosciamo oggi sembra non esserci più, soppiantata dai più generici «Distretti Centrali», «Interni», «Esterni» e via dicendo... La popolazione è tutta ammassata in città dove si concentrano le cliniche in cui Aspiranti centenari e pluricentenari si sottopongono a trattamenti di ogni tipo dalla «PelleDiDiamante™» al «NuovoSangue™», godono di ricambi altamente tecnologici e vivono una vita privilegiata. D’altro canto, i cosiddetti Sub-100, coloro a cui fin dalla nascita non è concesso accedere ai trattamenti, non giovano di alcun privilegio, ridotti a mera forza lavoro di un progresso che li vede solo spettatori inermi, destinati a una naturale vita mortale. Un nuovo ordine sembra aver soppiantato le forme di governo democratico e un indistinto e a tratti inquietante Ministero decide le sorti dell’intero Paese.
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Il romanzo si apre nel pieno della Seconda Ondata, a un passo dalla Terza nella quale, grazie alle tecnologie di avanguardia, i prescelti potranno accedere all’immortalità. In un mondo in cui il tasso di natalità è al minimo storico e le «Leggi sulla Sacralità della Vita» sono sempre più rigide, una schiera di centenari o aspiranti tali si aggira in città nel corpo di aitanti quarantenni ma il lettore addentrandosi nella storia comprenderà ben presto che il prezzo da pagare per l’immortalità è la vita stessa.
Lea e Anja sono le protagoniste di Suicide Club. Le due Aspiranti centenarie provengono da esperienze totalmente distanti: Lea ha proiettato tutta la sua esistenza in funzione della Terza Ondata, ha un lavoro di prestigio, un fisico impeccabile, uno stile di vita sano ed equilibrato eppure il suo passato e quello della sua famiglia sono costellati di luci e ombre che emergeranno nel corso della narrazione. Anja non si cura, ha una vita modesta, una situazione difficile che l’affligge, un vissuto quanto più lontano dalla vita perfetta di Lea, eppure il susseguirsi degli eventi e la presa di coscienza del mondo che le circonda avvicinerà inesorabilmente le due donne.
L’esistenza di Lea viene sconvolta da un evento inaspettato. Il padre Kaito ricompare dopo ottantotto anni di latitanza procurandole una fatale distrazione: attraversando imprudentemente la strada rischia di essere investita. Nella realtà distopica creata da Rachel Heng qualsiasi evento sospetto che possa insinuare nelle autorità il dubbio di un tentato suicidio genera l’immediata collocazione del sospettato nella lista nera e la svista di Lea diventa una condanna. La protagonista non potendo rivelare il reale motivo della distrazione per non esporre il padre fuggiasco si ritrova in una vorticosa serie di eventi tra Osservatori, gruppi di sostegno e un’eterogenea compagine di uomini e donne denominata Suicide club che mira a restituire il libero arbitrio a un’umanità costretta in un’imposta immortalità.
Ma in fondo chi vorrebbe vivere per sempre con il freno tirato? Con le finestre delle case sigillate, senza la brezza fresca sulle guance al mattino? Senza poter indossare un paio di cuffie e correre verso l’orizzonte? Senza sentirsi vivo? Senza emozionarsi più per le piccole cose? Senza vivere davvero? E già, perché le linee guida del Ministero, nella realtà delineata dell’autrice, non permettono attività che siano anche solo a basso rischio fisico e psichico come ad esempio il consumo della carne o l’ascolto di un concerto dal vivo.
Questa distopia risulta subito una prigione dell’anima: «più invecchiava, più veloce era il passare degli anni e minore l’impressione che le cose le facevano. I fatti erano espressi in verità generali piuttosto che in dettagli». E allora in un mondo in cui i ricordi si perdono nei meandri del tempo è con il dolore che si tenta di mantenerli vivi: «il dolore era bello, come il freddo sulle guance, il dolore nella parte bassa della schiena, le storie che formicolavano nella sua testa».
L’autrice dipinge un futuro nel quale tante tematiche che infiammano e spesso dividono l’opinione pubblica nell’età contemporanea vengono portate all’eccesso e alle estreme conseguenze innescando nel lettore molti spunti su cui riflettere. Il Suicide club che dà il titolo al romanzo rimarca la necessità di compiere scelte in totale libertà per ciò che concerne il Fine vita. L’eutanasia, demonizzata nonché bandita dalla New York del futuro, è praticata da questo gruppo sovversivo con lo scopo di rivendicare i propri diritti, in primis quello a una morte dignitosa:
«Smetterà tutto di funzionare, ma il mio corpo resterà in vita. Il cuore continuerà a pompare, il corpo sopravviverà. Sarò una larva. Magari sopraggiungerà la morte celebrale, magari no. Forse resterò intrappolato [...]. Con ogni probabilità mi spediranno in una fabbrica di organi. Mi prosciugheranno gli umori vitali un po’ alla volta, mi ricicleranno per creare parti sintetiche. E la mia mente...chissà? Dicono che in quello stato non sei cosciente. E se si sbagliassero? Se rimanessi intrappolato così, cieco, sordo e incapace di parlare, per altri cent’anni?».
In un mondo in cui il diritto all’eutanasia viene calpestato, anche il diritto alla vita acquista un significato diverso, si trasforma in un dovere scandito da ferree regole che travalicano la sfera del fanatismo. Il veganesimo, la cura del corpo, lo stile di vita sanissimo diventano un’ossessione. Ma la sacralità della vita è ridotta a un semplice numero che determina l’intera esistenza dell’individuo, da qui le disuguaglianze sociali e il paradosso per cui “alcune vite sono più importanti di altre” come d’altronde la Storia ci ha insegnato e come sembra ripetersi in ogni sua nuova fase.
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Rachel Heng con il suo primo romanzo Suicide Club dunque sembra aver colto nel segno, dipingendo un futuro distopico che, al pari del capolavoro di George Orwell, 1984, o all’agghiacciante Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, pone il lettore davanti ai pericoli del presente guardando con apprensione al futuro.
Per la prima foto, copyright: Joshua Newton su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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