Dopo 400 anni senza William Shakespeare siamo ancora affetti da bardolatria
«Non si può non essere affetti dalla bardolatria», parola di Harold Bloom, professore a Yale e critico americano che ha dedicato a William Shakespeare tutta la sua vita. A 400 anni dalla morte dell’autore di testi teatrali innestati nella nostra memoria collettiva a prescindere dall’averli visti rappresentati a teatro o trasposti al cinema (pensiamo ad Amleto, La dodicesima notte, Macbeth, Romeo e Giulietta, Giulio Cesare, La tempesta), testi su cui si è fondata buona parte del canone letterario occidentale, l’affermazione di Bloom non perde di valore. Se prendessimo un qualsiasi romanzo, racconto o testo scritto nei primi sedici anni del XXI secolo, potremmo scovare tracce di quella venerazione shakespeariana che per Bloom ha tutti i crismi di una religione secolare, di cui non si può evitare di essere adepti.
Grazie a Shakespeare abbiamo compreso la differenza fra personaggi che si raccontano e personaggi che si sviluppano, rielaborando sé stessi mentre si muovono nella storia di cui fanno parte. «Personaggi che si origliano mentre parlano da soli o con altri»[1], dando vita a un sistema di autoascolto che serve a mettersi in discussione, odiarsi, pentirsi, amarsi, dilaniarsi e poi ricominciare a sperare.
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Shakespeare ha ricreato l’uomo, fornendo al lettore e allo spettatore dei suoi testi uno specchio cui è difficile sottrarsi, uno specchio che si teme, ma di cui si subisce inesorabilmente il fascino e attraverso il quale si cerca una spiegazione alla propria realtà. Borges diceva: «Shakespeare sapeva essere tutti e nessuno», sapeva insinuarsi nell’animo umano senza alcun pudore e per farlo era disposto a prendere qualsiasi forma, mettendo in scena non solo degli sfavillanti protagonisti ma anche centinaia di coloratissimi personaggi secondari. Dove sarebbe arrivato Macbeth senza Banquo, Benedetto di Molto rumore per nulla senza Claudio, Otello e Iago senza Michele Cassio, Amleto senza Yorick?
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La ragnatela shakespeariana è fitta di pluralità di incontri come lo è la nostra vita. E poco importa se sia stata creata da un uomo solo o da un gruppo, che sotto il nome di William Shakespeare si celasse quello di Marlowe o di un nobile elisabettiano (molti critici hanno sostenuto che Shakespeare non avesse il livello d’istruzione adeguato per scrivere ciò che ha scritto), d’altronde più del cinquanta per cento della produzione drammaturgica del teatro elisabettiano è nata da una collaborazione fra autori. Non erano testi creati per la lettura, ma per la rappresentazione. Venivano adattati, tagliati e riscritti a seconda del tipo di pubblico che si aveva di fronte e della compagnia che lo metteva in scena.
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Ai tempi di Shakespeare il copyright non esisteva, pubblicare un testo voleva dire renderlo pubblico, ossia leggerlo agli amici o farlo arrivare, in forma di manoscritto, a persone capaci di comprenderne il valore. «Stampare un testo era considerata una vergogna, poiché la poesia veniva contaminata dal ‘sudicio’ lucro, dalla disponibilità illimitata, dalla mercificazione»[2]. Anche per questo la figura del drammaturgo era lontano dall’essere rispettata (a differenza dei poeti, i “veri” scrittori). Il pubblico pagava per vedere lo spettacolo e quindi la fruizione del testo passava per la transazione monetaria, rendendolo disprezzabile, agli occhi di un abitante della Londra del Seicento dotato di istruzione. In più la rapidità di scrittura era essenziale. Due autori erano meglio di uno e un quartetto meglio di tre. Il neonato teatro professionale elisabettiano (il primo teatro costruito espressamente per questo scopo viene ultimato a Londra solo nel 1576 da James Burbage sulla riva nord del Tamigi) aveva un disperato bisogno di testi nuovi da proporre a un pubblico che sembrava essere in continua astinenza da storie.
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Anche Shakespeare scrisse in collaborazione alcuni testi: Enrico IV, Tito Andronico, Timone ed Atene, I due nobili cugini. Quest’ultimo con John Fletcher, drammaturgo “aggregato” della compagnia di cui Shakespeare era il drammaturgo “titolare” (King’s Men); era quindi normale che Shakespeare e Fletcher lavorassero insieme. Lo si vede anche da vezzi linguistici che caratterizzavano i due scrittori. Fletcher da “giovane innovatore” tendeva a usare il pronome nominale “loro” nella forma elisa “em”, cosa che non avrebbe mai fatto Shakespeare con i suoi completi “them”. Per questo, nel testo dei Due nobili cugini, le scene scritte dall’uno e dall’altro sono distinguibili chiaramente. Ciò però non toglie valore all’opera, enfatizzando una peculiarità shakespeariana: la ricchezza della lingua.
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L’inglese che usiamo non sarebbe quello che conosciamo senza il teatro Shakespeariano. Il bardo ha sdoganato “il parlato” elisabettiano, fornendogli la solidità di un’impalcatura grammaticale e sintattica per offrire ai suoi personaggi tutte le sfumature necessarie a esprimere la loro interiorità, rendendo il lavoro dell’attore sempre più potente e sempre più difficile.
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Oggi, a distanza di 400 anni, il vocabolario shakespeariano con le sue asprezze e la non contemporaneità, fa nascere nuove sfide per gli attori e per gli spettatori. Entrambi ingaggiati a cercare lo specchio che Shakespeare ha nascosto per loro sotto i suoi versi.
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