Diario di un esule per “scelta”. “Volevo tacere” di Sándor Márai
«Negli ultimi tempi i morti scrivono molto e tutte cose buone» disse Márai una volta a proposito delle pubblicazioni postume dei grandi scrittori ungheresi che lo avevano preceduto: Dezső Kosztolányi e Gyula Krúdy. Potremmo dire altrettanto di lui, perché da anni escono, uno dopo l'altro, i suoi bei libri in Italia, e prima ancora in Ungheria, dove dal 1948 in poi, data della sua emigrazione, vietò sia l'esecuzione teatrale sia la pubblicazione delle sue opere.
Márai, che alla nascita si chiamava márai Grosschmid Sándor Károly Henrik, ovvero qualcosa come Sándor Károly Henrik Grosschmid de Mára in italiano, si tolse la vita a San Diego in California il 22 febbraio 1989, all'età di 89 anni. Uno dei più tradotti scrittori ungheresi in italiano, era testimone di tutti i grandi eventi storici del Novecento ma non visse abbastanza per poter vedere la caduta del Muro di Berlino, e la fallace speranza che ne scaturì, dell'avvento di una società democratica nell'Ungheria. Dopo il regime autoritario di Miklós Horthy, reggente revisionista e filofascista d'Ungheria dal 1920 al 1944, e la successiva breve ma crudelissima parentesi nazista ungherese, nel 1948 l'Ungheria era di nuovo sotto dittatura, questa volta sovietica. In dittatura non si può parlare né tacere. Comunemente si dice che chi tace è complice, ma parlare apertamente, condurre un dialogo normale non è possibile. Con ogni probabilità quest'impotenza, questa impossibilità di comunicare spinsero Márai a lasciare per sempre l'Ungheria, una scelta particolarmente grave per uno scrittore, perché nell'esilio viene intaccato lo strumento principale d'espressione che è la lingua, e viene a mancare da sotto i piedi la terra di casa che è anche cultura e fonte d’ispirazione. «... so che non sarò mai in grado di scrivere una sola riga di valore in una lingua straniera – non tanto per mancanza di capacità, ma per la semplice ragione che fuori dall'atmosfera della sua lingua materna uno scrittore è un essere paralitico, uno storpio balbuziente...»
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Márai, che con il suo antifascismo e anticomunismo è una figura pressoché unica fra i letterati ungheresi suoi contemporanei, sceglie l'esilio volontario, l'emigrazione, che secondo lui si divide in tre categorie: chi lascia la patria per stabilirsi all'estero, chi in patria sceglie l'emigrazione interna, il rifugio nell'estraneità, e chi da emigrato emigra dall'emigrazione nella solitudine. Lui ha vissuto le tre fasi e l'ultima non poteva che sfociare nella morte.
Le memorie, i diari di Márai dal titolo Confessioni di un borghese videro la luce in due volumi nel 1934 e nel 1935 (in italiano in un unico volume a cura di Marinella D'Alessandro, Adelphi, 2014), mentre Terra, terra!..., che doveva essere il terzo volume, fu pubblicato per la prima volta a Toronto nel 1972 (in italiano nel 2005 da Adelphi nella traduzione di Katinka Juhász), senza però i primi due capitoli che i lettori ungheresi hanno potuto prendere in mano per la prima volta soltanto nel 2013 in un volume autonomo dal titolo Volevo tacere, titolo scelto dall'editore ungherese (Helikon), perché l'autore non aveva lasciato indicazioni in merito.
Il testo nasce nei primi anni dell'emigrazione, fra il 1949 e il 1950, e arriva in Ungheria nel 1997 come parte del lascito di Márai.
«Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso.»
Iniziano con queste parole i due capitoli che ora formano un libro e costituiscono il bilancio del regime di Miklós Horthy, del suo “fascismo neobarocco”. Sullo sfondo Márai riepiloga la storia dell'Ungheria degli ultimi secoli, e ripercorre anche la strada che porta all'affermazione del fascismo e del nazismo. In particolare finiscono sotto la sua lente d'ingrandimento i dieci anni a partire dall'Anschluss, anche se la disamina parte da molto più lontano e focalizza soprattutto l'esistenza e il ruolo della borghesia, il ceto che fin dalla sua nascita è considerato depositario di progresso e cultura.
«Solo nell'Alta Ungheria e in Transilvania, nel complesso risparmiate dalla conquista turca [dal 1526 al 1686, NdR] poté svilupparsi un vero ceto borghese che costituiva anche una forza sociale nel senso occidentale del termine. […] La nazione uscì demoralizzata da quei centocinquant'anni: era rimasto il territorio, un popolo ungherese esiguo e decimato, erano rimasti i discendenti degli immigrati svevi, slavi, serbi, ed era rimasto un rifugio meraviglioso, la lingua ungherese. […] Me ne stavo seduto nel mio bello studio a Buda, e scrivevo in ungherese, ma per chi?... Allora non sapevo ancora che quel giorno [l'11 marzo 1938, quando le truppe di Hitler invasero l'Austria e la Germania proclamò l'annessione dell'Austria alla Germania – NdR] era iniziata la rovina degli ultimi quadri della cultura ungherese, di coloro che dopo il dominio turco – sia pure a intermittenza – l'avevano costruita e mantenuta in vita: era la rovina della borghesia ungherese.»
Perché l'autore è convinto che le dittature di qualsiasi colore non mirino a cancellare la classe borghese quale rappresentante una certa forza economica, bensì il suo intelletto, il suo ingegno.
Il libro è una resa dei conti con la Storia impregnata di forte senso della realtà, che a sua volta è supportata da solida moralità e da una preparazione non comune. Márai delinea altresì il ritratto di tre dei politici ungheresi più influenti della sua epoca che conosceva di persona: Pál Teleki, László Bárdossy e István Bethlen. Per qualche presumibile difetto di memoria la ricostruzione di alcuni episodi storici è imprecisa, ma le conclusioni sono sostanzialmente valide a distanza di molti decenni. L'autore è restio, non vorrebbe che il suo documento accusatorio finisca in mani straniere e rovini l'immagine dell'Ungheria custodita oltreconfine; questa esitazione non è altro che amor di patria, perché un vero patriota non idolatra la sua nazione, ma la vorrebbe senza difetti.
Al di là di una convincente visione storica, Márai dispone di capacità profetiche, a volte sa essere addirittura un vero e proprio vate, come in questo passaggio:
«Esistono ancora parecchie persone, perfino in posizioni di una certa responsabilità, convinte che una qualche forma di nazismo possa costruire un argine al bolscevismo.»
Qui fustiga il nazionalismo assurdo in un paese multietnico da secoli, parlando anche dell'Ungheria odierna:
«...saltava sempre fuori qualche spirito ipocrita e ottenebrato che negava a molti di noi, me compreso, il diritto a dirci ungheresi perché i nostri avi non erano giunti nel paese mille anni fa attraverso il valico di Verecke...»
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Si sentiva giustamente nel diritto di parlare della storia ungherese,
«... perché sono ungherese, anche se i miei antenati sono immigrati dalla Germania trecento anni fa, ne ho il diritto perché sono nato ungherese, l'ungherese è la mia lingua materna, e tutti i miei sentimenti e il mio destino individuale mi legano all'Ungheria.»
Si può non essere d'accordo con tutte le tesi di Márai, si possono adottare altri approcci e arrivare in parte ad altre conclusioni, ma una ricostruzione veritiera e approfondita della Storia ungherese di quell'epoca dovrà sempre tenere in buon conto Volevo tacere, questa pregevole opera resa in italiano nella bella e ben curata traduzione di Laura Sgarioto.
Per la prima foto, copyright: Gerrit Vermeulen.
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