Dare voce a chi non ce l’ha. “La forma del silenzio” di Stefano Corbetta
Donare una voce a chi non ce l’ha: questo l’intento del nuovo romanzo di Stefano Corbetta, pubblicato alcune settimane fa dalla casa editrice Ponte alle Grazie.
L’autore milanese, partendo dalla Bassa padana degli anni Sessanta del secolo scorso, racconta la storia del piccolo Leo e della sua famiglia, composta da una sorella maggiore, Anna, la madre, Elsa e il padre, Vittorio.
Preceduta da un ermetico esergo di Nietzsche («Ma l’indicibile afferrò un lembo della sua veste e ricominciò a gorgogliare e cercare parole»), la scena iniziale è emblematica nella sua semplice intensità: durante un sabato di primavera, il bambino dipinge una margherita sulla parete del soggiorno. Nessuno ce lo ha detto direttamente, ma possiamo immaginarla enorme, poiché Leo, per disegnarla, si è arrampicato su una scala recuperata dallo sgabuzzino e ha tracciato «ampie linee curve che dal gambo salivano aprendosi verso l’alto», tanto che «il capolino e i grandi petali bianchi […] sbordavano sul soffitto». Enorme, cresciuta da un sogno in cui lo stelo si ergeva oltre i tetti dei palazzi attorno, e soprattutto colorata, vivida di tutte le sfumature dei pensieri di Leo.
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Nato nell’impossibilità di dare vocalmente forma alle proprie emozioni, il piccolo non riesce nemmeno a pensare alle parole in quanto tali: possiede però un altro potere, quello di regalare ai suoi sentimenti e ai suoi desideri una forma visiva, meravigliata e incancellabile.
Accanto a questa forza, nel ritratto di Leo convivono anche la consapevolezza della diversità e la conoscenza del rischio di annullarsi in «un’altra forma di silenzio, […] più cupa e desolante»: sa di vivere «dietro una parete di cristallo» che lo esclude da ogni normale rapporto umano.
All’età di sei anni, dopo una prima infanzia passata a giocare abbracciando l’universo, a stupirsi per la «bellezza struggente» della traiettoria di una corsa giocosa dietro un angolo, dei disegni e delle lettere cubitali sui libri di cartone pronti a emergere dal buio quando vengono illuminati dalla torcia, Leo abbandona il nido e le premurose cure della sorella Anna, di otto anni più grande.
Viene destinato al Tarra, un istituto per sordi che sorgeva in una zona di Milano circondata dai campi: ogni settimana trascorre lì le sue giornate dal lunedì al venerdì, insieme ai compagni di classe e di dormitorio.
La sezione successiva del romanzo di Stefano Corbetta si sposta nei primi anni Ottanta; si focalizza su Anna, ormai donna, e sulle vicende che hanno caratterizzato diciannove anni di vita familiare, a partire dalla scomparsa di Leo dall’Istituto, nel freddo e nevoso dicembre del 1964. Il primo a crollare per l’assenza del bambino è il padre Vittorio, internamente roso da un’innominabile depressione, dopo che già in passato aveva patito sulla sua pelle la percezione dell’impossibilità di comunicare col figlio. Lasciatosi morire in seguito a un incidente, lascia la moglie e la figlia maggiore, le quali, con atteggiamenti diversi, tentano di superare le perdite subite: Elsa, coi capelli sempre più grigi, non abbandona mai il sorriso e si dedica al suo negozio di fiori, malcelato simbolo della fantasia di Leo rimastale nel cuore e tra le mani abituate a comporre e incartare mazzi e bouquet.
Anna, dal canto suo, intraprende con determinazione la facoltà di psicologia e diversi corsi di LIS, la Lingua Italiana dei Segni: in lei vive l’eredità del piccolo Leo, un’idea che «aveva preso forma» nel silenzio, «una voce tenue ma insistente», l’unica possibilità di far rivivere il suo amore per lui. La giovane donna lavora come insegnante di sostegno in una scuola elementare e ha aperto uno studio come psicologa: accoglie e segue assiduamente i suoi pazienti, ma proprio uno di loro è destinato a sconvolgere la sua esistenza.
Si tratta di Michele Grossi, un uomo muto, dal carattere ruvido e imperscrutabile, cresciuto in campagna, tra l’aia, i campi e le strade sterrate. A partire da questo incontro si dipana il viaggio di Anna alla scoperta del destino di suo fratello; e si snoda il viaggio di Michele, che con la sua bicicletta macina chilometri per cercare di comprendere il proprio passato, i tempi di quando era stato bambino al Tarra e aveva conosciuto Leo, prima che venisse rapito davanti ai suoi occhi.
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Prima della risoluzione conclusiva, che lascio scoprire ai lettori, il mistero si addensa di pagina in pagina, sebbene tutto il testo sia contraddistinto dallo stile luminoso, definito, iconico di una penna che ha colto la forma del silenzio (da ricordare la descrizione della cascina dove vivono Michele e Ivano; o il laboratorio di Giordano Ripoli con i suoi vasi colorati e i suoi variopinti batik) e che ha saputo lasciarsi andare a intense costruzioni retoriche spesso giocate sulla consonanza o la dissonanza tra paesaggio e stato d’animo; o a efficaci sinestesie – pensiamo a formule come «spiffero di luce» o, infine, al modo in cui Leo trova la voce nel disegno e nella creazione artistica, nella più bella forma attraverso la quale si può parlare anche se si è costretti a stare zitti.
Per la prima foto, copyright: Roman Kraft su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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