Dalla Parodi a Proust: perché compriamo i libri di ricette
Esiste un “genere” che sta letteralmente "mangiando" gli altri, ed è quello dei libri di cucina. Agevolato dalla televisione e da testimonial d’eccezione, il filone di Nonna Papera continua a reggere e i ricettari si confermano stabili bestseller. Chef affermati (e sempre più mediatici) come Carlo Cracco, ma anche cuoche "per caso" come Benedetta Parodi (attualmente in classifica con ben due libri), promettono di farvi cucinare un pasto che i vostri ospiti non scorderanno.
Come lettori, invece, a quante cene indimenticabili siamo stati invitati? A fare da padroni di casa vi erano illustri scrittori, autori di pagine dedicate a quell’atto così intimo che è il mangiare, per mezzo del quale spesso i personaggi rivelano i loro tratti: metodici o voraci, boriosi o timidi. In alcuni romanzi il cibo è stato protagonista di passaggi clou; a tavola si sono dipanati o complicati misteri, come spesso accade nei gialli “vecchia scuola”, e sono avvenute magie di vario genere.
Considerando il potere taumaturgico del cibo, come non citare Il pranzo di Babette, breve capolavoro di Isak Dinesen (pseudonimo di Karen Blixen), uscito nel 1958 e seguito da un film che nel 1988 vinse l’Oscar. Prima di fuggire dalla Francia e riparare a Berleevag, un piccolo paese protestante tra i fiordi sperduti della Danimarca, la misteriosa Babette, in veste di cuoca del Café Anglais, teneva Parigi ai suoi piedi. Nessuno conosce il suo passato a Berleevag, dove Babette fa la governante nella casa di due anziane sorelle puritane, figlie della scomparsa guida spirituale locale. Per quasi quindici anni Babette si accontenta di preparare i sobri pasti che le vengono richiesti, finché un giorno si offre di cucinare (a sue spese, ma anche questo non si sa) un importante pranzo celebrativo. Davanti a brodo di tartaruga, blinis dermidoff, cailles en sarcophage, annaffiati con dell’Amontillado e dello champage Veuve Clicquot del 1860, i dodici invitati, molti dei quali uomini pii e diffidenti verso i piaceri della tavola (e della vita in genere), subiranno una trasformazione che porterà uno di loro a dichiarare come, durante quel pranzo, «rettitudine e felicità si sono baciate».
Un simile potere seduttivo appartiene anche al cuoco Gaspard Ouralphe, protagonista di un racconto all’interno de Il bar sotto al mare, di Stefano Benni. In una notte buia, lungo la Senna, neanche il diavolo venuto per portarlo nel regno degli inferi (o per scroccare una mangiata) saprà resistere al menù di Ouralphe, tra cui spiccano porcetti ripieni di maccheroni con «in testa un cappello ricoperto di frittata su cui giacciono lepri alla moresca con corteccia di limon verde, le quali tengono tra i denti rametti d’albero su cui sono infilzate quaglie alla bolognese, piccioni in bisca, fagiani alla crema di pistacchi, pernici al colì di ceci, beccacce all’oritana e tortore in freddo all’arancia». Il timballo di maccheroni servito nel castello di Donnafugata, invece, è per Tomasi di Lampedusa un’occasione per celebrare l’apparizione di Angelica al cospetto dei Principi di Salina. Al piatto dedica una descrizione che è un’appassionata dichiarazione d’amore: «L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta».
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È un castello anche quello ne Le braci, di Sandor Márai, ai piedi della foresta dei Carpazi, in cui due amici si ritrovano dopo una lunga separazione. Henrik fa servire lo stesso menù dell’ultima volta che ha cenato con Konrad: «Minestra e trote. Poi roast beef al sangue e insalata. Per finire, gelato flambé». L’unica differenza è un posto vuoto, di spalle al camino; quello che quarant’anni prima aveva occupato Krisztina, la cui “verità” arde ancora sotto le braci del tempo passato. Nel cibo, la golosa Emma Bovary trova anche un mezzo per comunicare con il suo amante Rudolphe, il quale «si serviva di questo sistema per corrispondere con lei mandandole, a seconda della stagione, frutta o selvaggina». In un cesto di albicocche Flaubert piazzerà anche l’addio dell’amato alla fragile Madame Bovary.
Per Murakami invece, come dichiara la protagonista femminile di 1Q84, Aomame, «il corpo è un santuario da mantenere sempre pulito». Niente abbuffate nelle opere dello scrittore giapponese. Solo menù salutisti come quello del primo pranzo cucinato da Midori in Norwegian wood: «pesce all’agro accompagnato da frittatine, sgombro marinato, melanzane bollite, brodo con erbette, riso ai funghi e un piatto di rafani sottosale tagliati sottilissimi e ricoperti di semi di sesamo».
La cena è spesso un gradito espediente nei gialli. Quando non fa del cibo avvelenato l’arma stessa del delitto, Agatha Christie non trascura il tea time di Miss Marple o le torte di Poirot. Anche il Nero Wolfe di Rex Stout è un raffinato buongustaio e un pistino supervisore del suo cuoco/maggiordomo svizzero, Fritz. In Odore di chiuso, Malvaldi arriva perfino a fare del celebre critico gastronomico Pellegrino Artusi (personaggio citato ampiamente anche da Stefania Bertola in A neve ferma) il protagonista di un insolito weekend in Maremma, dove a morire, in un ribaltamento del giallo classico, sarà il maggiordomo. Impossibile leggere questo giallo senza provare la ricetta del “polpettone all’uso zingaro”.
Ma è forse il filone delle madeleines di Proust il più ricorrente nella letteratura e quello che più ha influenzato il continuato successo del genere gastronomico: la capacità del cibo di portarci indietro nel tempo, al ricordo dei sapori del passato e dei volti di chi li cucinava. Convinto che «il passato è nascosto in alcuni oggetti concreti», l’autore de La ricerca del tempo perduto trovava «nel gusto di quei dolci corti e paffuti che chiamano petites madeleines» le memorie della sua infanzia e delle estati passate a Combray.
È forse per questo che compriamo libri di cucina? Con la speranza di trovare delle madeleines proustiane capaci di parlarci di parti di noi e della nostra storia?
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