Dalla mafia al Risorgimento, l’ironia non risparmia nessuno. Intervista a Isidoro Meli
Dopo il successo di La mafia mi rende nervoso (Frassinelli), Isidoro Meli torna a porre al centro della sua narrazione l’ironia. E lo fa con Attìa e la guerra dei gobbi, edito da Frassinelli.
Con questa nuova fatica, Meli ci riporta nel bel mezzo del Risorgimento, e lo fa con la stessa ironia che già aveva caratterizzato il suo precedente romanzo. Questa volta siamo alle prese con un gruppo di quattro uomini che, il primo marzo del 1860, partono da Palermo per raggiungere Caprera, dove avrebbero voluto rapire la donna di Garibaldi.
Con Isidoro Meli abbiamo chiacchierato un po’ di ironia, Sicilia, Risorgimento e del suo ultimo libro.
Da La mafia mi rende nervoso, suo primo romanzo, ad Attìa e la guerra dei gobbi lei continua a scegliere l’ironia come cifra espressiva. Qual è oggi la funzione dell’ironia? C’è ancora posto per lei nella nostra società ipertecnologizzata?
La funzione dell’ironia, oggi come due millenni addietro, è di ampliare la nostra comprensione della realtà avvicinandoci a punti di vista diversi dal nostro. Lo fa attraverso l’uso dei paradossi, che ci rivelano la presenza di incongruenze nei nostri schemi cognitivi acquisiti. L’ironia è alla base della maieutica di Socrate e dei principali trattati etici e religiosi dell’umanità, dalla Bibbia ai Ching. Non è qualcosa che può venire meno o diventare inutile. Forse si riferisce all’uso che spesso se ne fa sui social, per primeggiare in una discussione o per denigrare la controparte, trasformando gli scambi dialettici in una gara a chi ce l’ha più lungo. Uno degli strumenti principali per ampliare la nostra conoscenza utilizzato per produrre maggiore chiusura. È un uso molto paradossale, dunque ironico, dell’ironia.
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Al centro di entrambi i libri c’è la Sicilia, contemporanea nel primo e risorgimentale nel secondo. Al di là del dato biografico, perché quest’attenzione per la Sicilia? Secondo qualcuno l’isola funge da cartina di tornasole dell’Italia, è così anche per lei?
Di solito comincio a scrivere per cercare di rievocare l’atmosfera o l’emozione che mi trasmette un luogo, dunque è abbastanza inevitabile che scriva di Sicilia. Ma in realtà credo che Attìa e la Guerra dei Gobbi sia più incentrato sulla Sardegna, sulla potenza arcaica di luoghi come la costa est e il Gennargentu.
Se la Sicilia è una cartina di tornasole dell’Italia? Direi di no. L’Italia è un posto composito, non vi è modo di sintetizzarlo. La stessa Sicilia è assai composita al suo interno (a partire dalle ampie differenze tra versante occidentale e versante orientale). Anche la vecchia e abusata definizione di Sicilia come “laboratorio politico”, tanto cara a molti notisti, mi pare sia uno dei classici luoghi comuni buttati lì per non dire nulla, e soprattutto non spiegare nulla.
Più che altro la Sicilia è uno dei luoghi più degradati d’Italia, e in questo è probabilmente un presagio di quello che accadrà anche da altre parti. Un paio di anni fa, durante una presentazione a Como ho sostenuto, usando un paradosso, che la Sicilia non sia più indietro rispetto all’Italia, ma più avanti: sono le altre regioni che negli anni a venire si avvicineranno ai nostri standard di desolazione. Quindi osservandoci, possono farsi un’idea del futuro.
Scrivendo e documentandosi per i due romanzi, ha notato qualche cambiamento nella natura dei siciliani? Dal Risorgimento a oggi com’è mutata la sicilianità?
Esiste davvero una sicilianità? Supponendo di sì, e prendendo per buone le caratteristiche enunciate in secoli di letteratura e sociologia, ovvero una sorta di cinismo fatalista che rende refrattari al cambiamento e propensi a un certo immobilismo, non ci sono grandi possibilità di mutamento. Come ho già detto però la Sicilia è molto composita al suo interno, e caratteristiche comuni è arduo rintracciarle. C’è stato credo un acuirsi dei difetti dovuto all’impoverimento generale, alla fuga dei giovani e al conseguente invecchiamento della popolazione: invecchiando i caratteri tendono a indurirsi.
Lei ha definito il suo Attìa e la guerra dei gobbi un romanzo di ventura e picaresco. Quali sono gli elementi del picaresco a cui ha attinto di più e quali quelli che invece ha rinnovato per adeguarli alla sua idea di romanzo?
Quando ho iniziato a scrivere Attìa, e parliamo di diversi anni fa (è un romanzo che ha avuto una gestazione lunga e articolata), l’idea era di metterci dentro tutto quello che adoravo, a partire dalle letture d’infanzia, quelle che mi hanno fatto innamorare della narrativa (le favole e l’immaginario dei cantastorie, i romanzi dei Dumas, Salgari, Stevenson, i cicli dell’opera dei pupi), passando per la musica e i film, la televisione, fino ad arrivare ai fumetti e i videogames. Il romanzo picaresco ti permette un’ampia libertà di giocare con gli ingredienti, di innestare nella narrazione elementi anche apparentemente (e perfino effettivamente) inappropriati. Richiede particolare attenzione nel dosaggio di tutti gli elementi, e in estrema sintesi un sacco di duro lavoro (la gestazione lunga e travagliata di cui sopra). Le principali caratteristiche che ho cercato di mantenere per tutta la narrazione sono l’impatto e la precarietà: sbattere l’azione in faccia al lettore in tutta la sua violenza, sporcizia e fetore, non dargli il tempo di domandarsi se prova empatia o meno per i personaggi, fargli capire che in qualunque momento può succedere di tutto. Una delle cose che amo di più nella narrativa è essere colto di sorpresa.
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Quasi all’inizio del libro, Nello, l’io narrante, afferma: «Sono i tempi che altrove saranno detti del Risorgimento, ma che se permettete io preferirei definire del tramonto: è anche la storia di come sono morto.» Quanto c’è di storicamente vero in questo “gioco” tra Risorgimento e tramonto? È solo una questione di prospettiva, o c’è dell’altro?
In questo periodo, a causa del romanzo che sto scrivendo, ho approfondito il tema dell’anamorfismo (immagini che mutano forma in base alla posizione dell’osservatore) e, a causa di un altro che devo ancora scrivere, quello della misdirection (il distrarre l’attenzione del pubblico tipico degli illusionisti, prima dell’esecuzione del trucco), dunque per me quella della prospettiva è una questione molto seria.
Che altro c’è? Le solite robe che accadono in Italia: da una parte una narrazione storiografica ufficiale intrisa di patriottismo e puttanate (l’esito della battaglia di Calatafimi è la mia preferita), dall’altra una contro-narrazione (la polverosa saggistica filo-borbonica) farlocca e arruffona, che fa uso di tabelle approssimative e stiracchiate a proprio piacimento per divulgare il mito di una Sicilia paradiso terrestre, prima che arrivassero quei bruttoni dei piemontesi. Un paradiso terrestre pieno di analfabeti e di morti di fame, va da sé. Insomma, la solita, cara, vecchia, italica ipocrisia (di cui in Sicilia, questo sì, siamo maestri). L’ipocrisia mi rende nervoso.
A Salvatore Paradiso nel suo diario fa scrivere: «Credo addirittura che se ogni uomo, donna e bambino di questa terra dedicasse una parte del suo tempo alla scrittura et alla meditazione, il mondo sarebbe un luogo assai migliore.» Qual è il suo rapporto con la scrittura e con la meditazione?
Salvatore Paradiso il suo diario se lo scrive da solo. Gli piacerebbe un sacco scrivere e meditare, ma non ha mai il tempo, e quando ha tempo non ha voglia. Il mio rapporto è molto simile: scrivo un paio d’ore per notte, quando mia moglie e mia figlia sono andate a dormire, quando trovo il tempo e la voglia. E non medito. Almeno non consapevolmente.
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