Crisi di valori e d'identità nei “Ragazzi dello zoo di Berlino”
[Articolo pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 6/2013, Racconto della crisi]
È degli anni Settanta quella che venne definita la “generazione dell'eroina”, una classe di giovanissimi la quale, in breve tempo, passò dalle prime esperienze con l'hascisc alla condizione di “bucomani”. Il fenomeno fu piuttosto complesso, e, se l'attecchimento avvenne soprattutto nei ragazzi tra i tredici e sedici anni, il motivo è da ricercare in una crisi identitaria e di valori che, progressivamente, spinse molti di loro lungo la strada di non-ritorno.
La storia di Christiane Vera Felscherinow, al secolo Christiane F., è nota: sono trascorsi quasi quarant'anni da quando, nel luglio 1977, fu arrestata e processata per prostituzione e detenzione di sostanze stupefacenti. La sua testimonianza, raccolta nel 1978 dai giornalisti Kai Hermann e Horst Rieck, costituì il materiale per uno dei documenti-verità più crudi sulla dipendenza dalla droga, Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, edito da Rizzoli, nel 1981, con la traduzione di Roberta Tatafiore (in tedesco Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, edito nel 1978, con quel “kinder” che forse, più della traduzione italiana, sottolineava la giovane età dei tossici: infatti, “kinder”, in tedesco, significa “bambini”, mentre per “ragazzi” sarebbe più corretto il termine “jungen”).
Sembra quasi un paradosso, ma il boom industriale tedesco del dopoguerra – e il conseguente accresciuto benessere economico – ebbe un peso determinante nel dilagare della droga tra gli adolescenti residenti nei centri urbani. In Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, l'attenzione è rivolta al quartiere dormitorio di Gropiusstadt, in cui vivevano allora circa 45mila persone: le vittime dell'eroina furono per lo più figli di operai, preoccupati di dare alla prole quanto era a loro mancato in passato e, per questo, disposti a duri ritmi di lavoro, che lasciavano ben poco spazio alla vita domestica. I ragazzi si ritrovarono ad affrontare in quasi totale solitudine il delicato passaggio all'età adulta: ciò comportò conflitti a scuola e con le famiglie, con la successiva ricerca di un gruppo esterno a cui appartenere. La struttura stessa di un quartiere come Gropiusstadt incentivava l'ingresso precoce in contesti poco raccomandabili: era, infatti, una sorta di «città satellite», costruita «sulla redditività del capitale», e perciò strutturata in modo da rispondere alle esigenze di uno stile improntato allo sviluppo industriale, più che alla qualità della vita. Gli affitti e i costi sempre più elevati spinsero alla necessità di un doppio reddito e a un'affannosa corsa verso l'ingannevole felicità che il denaro sembrava garantire. Se negli anni precedenti al libro la classe operaia cercava rifugio nell'alcool, negli anni Settanta la stessa funzione era svolta dalle sostanze stupefacenti, fossero esse “leggere” o “pesanti”: come sottolineato da Jurgen Quandt, segretario del Centro Evangelico Haus der Mitte, la struttura in cui iniziò la rapida ascesa di Christiane nella tossicodipendenza, ormai era considerato fuori dal comune non tanto il fatto che in molti facessero uso di droghe, ma che in tanti, pur avendo i medesimi problemi quotidiani, non ne facessero uso.
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Alla crisi sociale e famigliare si aggiunse un sentimento di smarrimento e inquietudine. A causa dell'età e della mancanza d'esperienza, i ragazzi non erano ancora in grado di comprendere le loro reali aspirazioni e, senza una guida fidata che ne forgiasse la personalità e il carattere, furono indotti a pensare che una pettinatura e un abbigliamento alla moda fossero fondamentali per attivare un processo di identificazione all’interno di un gruppo.
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