“Crepuscolo”, lo sguardo e la grazia di Kent Haruf raccontati dal traduttore Fabio Cremonesi
Kent Haruf scriveva in un capanno, con indosso un berretto calato sugli occhi perché non voleva essere distratto da elementi non immediatamente coinvolti nel processo creativo: della punteggiatura e dell’ortografia se ne occupava in seconda battuta. Questa è la prima immagine con cui Fabio Cremonesi, traduttore della Trilogia della Pianura per NN editore, ci accoglie nelle stanze della casa editrice per parlarci del suo lavoro di traduzione e della poetica di Haruf. L’ultimo capitolo della trilogia, per il lettore italiano, è uscito a maggio 2016 e si intitola Crepuscolo. È il seguito ideale di Canto della pianura (Benedizione in realtà è successivo, benché in Italia sia giunto per primo, nel 2014), ma i due volumi si leggono benissimo anche separatamente.
La seconda immagine che ci viene offerta dello scrittore americano scomparso nel 2014 è quella di un gran lavoratore: Fabio Cremonesi cita una bella intervista rilasciata dalla moglie Kathy Haruf, in cui la donna lo racconta come quel tipo di scrittore che lavora tutti i giorni, anche quando sente di non aver nulla da dire. E che ammoniva i suoi allievi di leggere molto e lavorare sodo. «Trovo estremamente coerente, rispetto ai romanzi di Kent Haruf, questo senso della scrittura come mestiere», dice Cremonesi. «È coerente con i suoi personaggi: lavorano tutti come somari, dalla mattina alla sera. Anche i più sbandati, anche quelli che un lavoro non riescono a tenerselo. E lui li racconta tutti, con uno sguardo pieno di grazia».
In Crepuscolo siamo sempre nella contea di Holt, un paesino in mezzo al Colorado, dove Haruf ambienta tutta la sua trilogia. In questo contesto semi-rurale si incrociano le vite degli anziani fratelli McPheron e di Victoria Roubideaux a cui i McPheron hanno dato una casa quando la ragazza era rimasta incinta (e ora le sono affezionatissimi); c’è la malinconia del piccolo DJ, timido ragazzino che vive col nonno e che fa amicizia con Dena, figlia di Mary, una donna in crisi coniugale; c’è Hoyt, il personaggio “cattivo”, e ci sono sua nipote Betty e il marito Luther, genitori ingenui e scombinati dei piccoli Richi e Joy Rae. E molti altri attori secondari. «Anche in questo caso ci troviamo in un libro che parla di comunità e ancora di più di famiglia, ma dilata i confini di ciò che chiamiamo famiglia». Ciononostante, Crepuscolo non è esattamente un libro di trama: protagonista è la voce dell’autore, con la sua capacità percettiva e descrittiva, «una voce affettuosa e senza smancerie». Passo lento, una tendenza all‘economia di parole, una specie di calma interiore.
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Crepuscolo è un romanzo pieno di vita, amore, tristezze, accadimenti, seconde possibilità. Spiega Cremonesi: «Un critico ha definito Benedizioneun romanzo in re minore. Il re minore è il modo, ad esempio, delle messe a requiem. Riprendendo questo spunto, penso che Crepuscolo sia un romanzo in fa maggiore, che per intenderci è quello della Pastorale di Beheetoven. È il modo della pienezza della vita e appartiene a una miriade di canzoni d’amore che abbiamo in testa. A dispetto del titolo questo non è affatto un libro crepuscolare, anzi direi che è un romanzo all’insegna di un moderato ottimismo. Anche se, come in Canto della pianura e in Benedizione, c’è una certa quantità di violenza».
Come giustamente ci ricorda, il romanzo parla di vita, ma si chiama Crepuscolo. «In esergo c’è un inno sacro, così come nel caso degli altri titoli. In Haruf questo tema è molto presente. Lui ha una capacità di scrivere con “un occhio rivolto costantemente al cielo”. Può parlare di cose metafisiche convincendo tutti».
La scrittura di Kent Haruf procede, da Canto della pianura a Benedizione, nel senso di una sempre maggior essenzialità: questo modifica il suo sguardo così generoso e compassionevole? «No. Haruf tratta sempre di cose di cui siamo disabituati a parlare: la nostra è un’epoca in cui la chiave di interpretazione della realtà prevalente è il cinismo. Tutto quello che leggiamo, che vediamo al cinema, è permeato da un profondo cinismo e da una specie di “ironia chic”… aspetti di cui Haruf è sempre, complessivamente privo. Semplicemente, parla con rigore di cose che stanno a cuore a tutti; e se nessuno ne parla è perché non rientrano nei codici linguistici in voga».
Holt è un luogo per certi versi poco collocabile, soprattutto nel tempo. Ma è l’habitat essenziale dove Haruf ambienta le sue storie. «La sensazione può essere quella di trovarsi davanti a un romanzo ambientato in un qualche punto del passato. Vi invito a fare un piccolo esercizio: andate su Google Street View a vedere com’è Huma, il paese a cui Holt si ispira con una precisione millimetrica. Magari in qualche casa ci sono computer o oggetti tecnologici, ma è un luogo segnato dall’immobilità. Dove può sembrare che le lampadine non vengano cambiate da sessant’anni».
Nel gioco dei paragoni tra Kent Haruf e altri autori c’è chi parla di Steinbeck. Qualcuno dice McCarthy. Haruf stesso indica fra i suoi maestri Hemingway e Faulkner. «C’è il peso di una certa tradizione ed è forte. Quello che ci vedo di diverso è proprio la grazia nello sguardo, Steinbeck, ad esempio, è più crudele e spietato. Lo sguardo di Haruf ha sempre qualcosa di luminoso che in Steinbeck ho trovato più raramente.Mentre, per quanto riguarda Hemingway: penso che non ci sia scrittore americano statunitense più lontano da lui».
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Naturalmente ci sono anche delle peculiarità solo di Haruf… «C’è il suo genio per le piccole cose. Una capacità di gesti minuscoli e carichi di intensitàche io ho trovato solo, da lettore, nell’ultimo DeLillo. Ha uno sguardo ipermetrope sui gesti e sugli atteggiamenti delle persone. Oppure, sulla luce: sappiamo sempre che luce c’è nelle sue pagine, ed è una cosa bellissima. Facendo un paragone ardito come quello con la musica, architettonicamente, i romanzi di Kent Haruf sembrano degli edifici di Alvaro Siza, architetto portoghese che fa edifici che sembrano costruiti per lame di luce. Anche in Haruf la luce ha una funzione strutturale».
Dopo tre libri e un percorso dentro la voce di questo autore, Cremonesi ne parla in modo umanissimo, come fosse una persona a lui cara. «Ho trascorso con Kent Haruf 10 ore al giorno, negli ultimi 13 mesi. Per quanto mi riguarda, è la singola persona con cui ho avuto più a che fare e con cui mi sono inteso meglio nell’ultimo anno e mezzo. Ma chiunque legge Haruf può sentire una vicinanza con lui. Fra autore e traduttore crea una relazione molto particolare. Vi racconto un aneddoto dolce-amaro: chi fa il mio mestiere, se ha dei dubbi, li tiene da parte, per poi verificarli con l’autore, se è ancora vivo. È una cosa decisiva, nel rapporto fa un traduttore e uno scrittore, rispetto al rapporto umano. È il momento in cui si possono scoprire alcune cose sull’autore che stai traducendo… è un momento più profondo del previsto. Sono arrivato alla fine di Benedizione, dopo aver impiegato molto tempo per trovare la voce giusta,e non avevo niente da chiedere ad Haruf. Tuttavia, ero talmente felice di aver lavorato a un libro così bello che gli ho scritto comunque: gli ho scritto dicendo che ero orgoglioso e privilegiato per aver lavorato a un libro così bello e di aver dato il mio contributo perché venisse conosciuto anche in Italia. Haruf non mi ha risposto. Parlando con l’editrice, settimane dopo, mi ha detto: Kent Haruf non ti ha scritto perché è morto. È stato come se fosse scomparso il nonno che non ho mai avuto».
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In rete non sono molte le fotografie di Kent Haruf. In una c’è questo capanno, quello in cui lui scriveva: ma lo scrittore non è chino sulla tastiera, abbraccia invece un nipotino quasi in fasce. Lo stringe con delicatezza, con tutta la grazia del mondo.
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