Costruire la propria solitudine. “Gli schifosi” di Santiago Lorenzo
Leggendo Gli schifosi di Santiago Lorenzo (Blackie Edizioni, traduzione di Bruno Arpaia) si ha la snervante sensazione che spesso sia impossibile imbattersi in un romanzo integralmente riuscito. Forse l'osservazione appare poco più che ovvia: la stesura dell'inizio non induce l'autore alla tensione di dover e voler concludere.
Gli schifosi inizia bene. Manuel non ha un impiego fisso, si arrangia con improvvisati lavoretti e si sposta sempre con un cacciavite in tasca: sorta di talismanodella sua esistenza senza affetti. Non ha amici ma tenta di integrarsi nella società in cui vive senza riuscirci. Per legittima difesa ferisce gravemente un poliziotto alla gola con il cacciavite durante una manifestazione. Deve scappare da Madrid e dopo infinite ispezioni si ritrova in un territorio sconosciuto costituito di due sole case. Qui nascosto da tutto, tenta di ricostruirsi una vita lontano dalle sue vicende disgraziate. Le sue traversie sono narrate dallo zio materno col quale è in contatto via telefonino salvavita.
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In questo borgo, Manuel che aveva abbandonato gli studi di ingegneria, scopre che si può vivere secondo un altro genere di esistenza, calato nell’austerità più assoluta. Come un novello Robinson Crusoe deve reinventarsi la propria quotidianità. Mangia quello che gli può offrire il territorio, scoprendo che si può tuttavia sopravvivere col meno, a volte anche col niente. Man mano che si scopre a contatto con i limiti della più bruta sussistenza, Manuel si rende conto che si può vivere nella solitudine senza disporre dei beni materiali della società del consumo. Scopre un nuovo tipo di esistenza/sopravvivenza che gli giova, tanto da rifiutare il mondo che ha dovuto abbandonare suo malgrado. Tanto meno uno ha bisogno di beni materiali, tanto meglio riesce a vivere: è questa una nuova fede che alla fine il giovane abbraccia totalmente, abbandonandosi al più assoluto isolamento. Si rende conto che tutto quello che gli manca non lo destabilizza, anzi il disporre di una nuova tipologia di averi elementari eleva la sua solitudine a un inaspettato grado spirituale. Capita però che una famiglia di città affitti inspiegabilmente la seconda casa dell’orribile borgo, attigua alla sua catapecchia e ciò sconvolge il suo modello di vita.
Ben delineata è la figura del nuovo selvaggio che, a differenza del suo illustre predecessore letterario, non si impenna nella positività eponima della razza umana, ma aguzza il suo ingegno per rifiutare il concorso sociale. A metà del romanzo avviene uno scatto dinamico e narrativo con conseguenze impensabili. Il solitario che vuole vivere lontano dai suoi simili e che della sua vita ha fatto una sorta di carpenteria esistenziale, bravo com'è con uncacciavite a costruire il proprio habitat, deve subire l'inaspettata vicinanza deglischifosi cittadini nella zona deserta a lui solo destinata. Spuntano emorragici villeggianti domenicali che gli rovinano la tanto architettata e tutelata solitudine. E qui l'autore strizza l’occhio al lettore con una prosa veloce che racconta una storia paradossale che sembra uscita da una scuola di scrittura creativa. Non sussiste una forte critica alla società del consumo, bensì un manicheo infantilismo, irresistibilmente sospinto da un piglio caricaturale che non si risparmia una sola virgola icastica riguardo al disprezzato e deriso gregge umano.
Non occorreva l'invasione degli ultraterrestri del week-end, descritti più o meno come una massa compatta di deficienti, mamma, padre, nonni, bambini, per offrire lo spunto a un contesto narrativo imperniato sul contrasto tra io e gli altri. Gli altri sembrano corrispondere all'indomabile idiosincrasia dello scrittore, a un'anarchia quasi goliardica che straripa al solo scopo sarcastico. Non occorreva tutto questo dispendio di caricatura.
Si tratta di un libro stravagante e divertente che ha messo a dura prova il traduttore. Il linguaggio spesso ostentatamente colto ed elaborato può anche piacere, ma in realtà non si sporca mai, aderisce pedantemente al messaggio che vuole trasmettere.
Un romanzo accattivante più che provocatorio. Tutto però risulta prevedibile e didascalico; ogni spunto trova il suo posto senza seminare nessuna tensione contenutistica. Disturba la mancanza di significati reconditi. La critica alla società dei consumi è un tema che rischia la banalità, se non è supportato da dubbi, imbarazzi, disagi che non siano solo quelli di fuggire la società dei supermercati (nel romanzo molto valorizzati per risolvere le necessità dell'approvvigionamento di Manuel).
Il tema della costruzione della solitudine è bello, così come il metaforico supporto del cacciavite e la premessa del vissuto del protagonista che cerca i contatti con i suoi simili senza riuscirci, cifra del nostro tempo. Efficace è l'adattamento all'isolamento non automatico, frutto di sofferto lavorio esistenziale e capacità manuale di fare della solitudine un nucleo spirituale. Si potrebbe, esagerando la misura, ricordare quanto i filosofi presocratici attingessero dalle mani parte delle loro speculazioni.
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Per concludere il romanzo procede vivace nella prima parte e nella seconda è più scontato, nonostante gli equilibrismi lessicali dell’eccellente traduttore Bruno Arpaia a cui si deve, probabilmente, parte della brillantezza del linguaggio. Si risente la provenienza letteraria della novella picaresca: Manuel come Lazzarillo De Tormes passa da una disgrazia all’altra nello stupore e nella speranza.
Per la prima foto, copyright: Simon Matzinger su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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