Cosa dicono di noi i nostri vestiti? Intervista a Elvira Seminara
La scoperta del nuovo romanzo di Elvira Seminara, Atlante degli abiti smessi, pubblicato da Einaudi, arriva per me grazie a un endorsement (inglesismo tanto in voga in questo ultimo periodo) di Michela Murgia che su Facebook ha espresso parole di elogio e di apprezzamento per l’opera della giornalista e scrittrice siciliana, vero e proprio longseller, uscito nell’autunno del 2015.
L’Atlante degli abiti smessi di Elvira Seminara (mamma della scrittrice Viola Di Grado) è un libro originale e imprevedibile, spiazzante per la sua schiettezza: Eleonora, la protagonista, decide di svelarsi e di raccontarsi parlando degli abiti del suo armadio alla figlia Corinne, con cui vive un rapporto tormentato. Lasciando Firenze per Parigi («La città all’estero che conosco di più» ha dichiarato la Seminara, che l’ha inserita anche nel precedente romanzo Scusate la polvere), crea questo personalissimo inventario dove i vestiti hanno anima, forza, sentimenti: non gonne qualsiasi o casacche catalogate per colori, generi o tessuti, ma indumenti che plasmano – vuoi o non vuoi – l’identità di una persona. E la tentazione di correre ad aprire il proprio armadio per vedere che fine abbiamo fatto fare ai quattro poveri cenci accantonati alla rinfusa è davvero forte. Così come è forte e subitaneo, sempre per la sottoscritta, il pensiero che va a quel maglioncino rosa pesca, per nulla fashion, a dire il vero, indossato innumerevoli volte alle superiori: uno degli ultimi capi che ha incarnato pienamente l’identificazione con una stagione della vita. Eleonora traccia questo inatteso vademecum, questo catalogo speciale (ci sono i “Vestiti Elfi”, che non trovi in nessun posto quando li cerchi; “Vestiti che vogliono brillare”, come le bombe) per la figlia, con una lingua potente, ricca di espressività, vibrante di sensualità e vitalità. Nessuna griffe all’orizzonte, se non quella della vita, degli amori, delle passioni. «La biografia la ricostruiamo sempre a modo nostro e nel dolore siamo storiografi scorretti» si legge in un passaggio emozionante. Elvira Seminara sta portando in tour per l’Italia in queste settimane il suo Atlante degli abiti smessi, in compagnia di alcuni “esemplari”, abiti smessi che testimoniano la loro esistenza.
Come ha appreso la notizia dell’endorsement da parte di Michela Murgia?
Da Facebook, come molti altri, perché prima di allora non conoscevo di persona Michela Murgia, mi è stato segnalato da alcuni amici. Ho avuto modo di conoscere la Murgia al festival Libri Come un paio di settimane fa, l’editore ci ha presentate. Il gioco di Facebook è anche questo, se ci pensa, la massima intimità nell’estraneità. Un aspetto divertente, tutto sommato.
Come è nata l’ispirazione per questo romanzo dall’impostazione così originale?
Avevo due spinte interiori: la prima la sentivo come una sfida, ovvero quella di comporre attraverso stilemi e strutture diversi, non frequentate abitualmente. Questo è, infatti, un romanzo costruito su elementi eterogenei: c’è l’inventario, che di solito usiamo per la lista della spesa e per cose pratiche, della vita quotidiana, c’è la poesia, c’è l’epistolario, c’è il dialogo e infine la storia che scorre tra gli interstizi. Volevo realizzare un romanzo che avesse qualcosa da dire anche dal punto di vista della struttura ed è questo un aspetto tutt’altro che secondario, secondo me, per uno scrittore che deve impegnarsi a trovare una soluzione “altra” per raccontare le storie che lo stimolano. Lo scrittore è chiamato a dare un’interpretazione del presente attraverso strumenti nuovi, insoliti, atti a portare il lettore su un territorio inconsueto, anche dal punto di vista della narrazione, non solo del contenuto. Penso di aver raggiunto il risultato che mi sono prefissata, come mi hanno dimostrato i lettori sia nel corso delle numerose presentazioni in giro per l’Italia, sia nelle lettere bellissime che mi mandano: ho avvertito la loro sorpresa nel trovarsi di fronte ad un territorio nuovo proprio per la scelta della narrazione e sono molto contenta per questo.
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E la seconda sfida?
È relativa a una materia che sento molto mia, ovvero il recupero delle cose perdute. L’immagine che mi ha folgorato, da cui poi è partito il romanzo, è stata quella di un mucchio di abiti informi depositati fuori del cassonetto, quello della raccolta di abiti usati, per intenderci. Non erano abiti logori perché nessuno più oggigiorno consuma realmente i vestiti che dismettiamo. Questo mucchio emanava un sentimento struggente di malinconia, perché non erano più vestiti, ma non erano ancora stracci. Appartenevano a una soglia intermedia, al confine, come lo sono le storie e i personaggi che racconto. Gli abiti smessi esprimevano il sentimento del passaggio, e del resto ritengo che la mia lingua madre sia proprio quella della soglia, del passaggio, del transito, del non ancora. In questo romanzo dagli abiti si passa a parlare di vita vera, di situazioni, di conflitti. È un “vestiario”, ma è anche un “bestiario”, in cui ogni abito rappresenta una figura antropologica, un modo di vivere. Gli abiti sono un mondo “nostro”, in realtà poco frequentato, nascosto, confinato in qualche angolo remoto e che conosciamo davvero poco. Sono venuta a sapere che, in alcuni casi, questo schema degli abiti – presente nel romanzo – è stato usato anche nelle terapie psicologiche come strumento di narrazione del soggetto perché l’abito smuove sentimenti, sensazioni, ci costringe a fare i conti con noi stessi in qualche modo. Una sorta di scrittura curativa. Ciò davvero mi ha riempito di una grande soddisfazione inattesa.
Un aspetto sorprendente del romanzo è come abbia trattato e affrontato la questione della lingua…
Ho una grande devozione per la parola. Le parole sono state scelte una per una perché ogni parola per uno scrittore è un’assunzione di responsabilità. Usare una parola al posto di un’altra, giocare con la parola, spostarla da un campo semantico all’altro, vestirla di senso. Credo nel valore e nella potenza della parola in assoluto e dobbiamo stare attenti all’estinzione delle parole, così come all’estinzione di una pianta o di un animale. Le parole sono sottoposte a uno sterminio quotidiano. Quando smettiamo di usare una parola, perché ci sembra vecchia o superata, essa trema e muore, si spegne come una candela, perché perde il suo valore di scambio, la sua funzione primaria che è quella di comunicare qualcosa. C’è una mortalità verbale notevole e non ce ne accorgiamo, perdiamo quasi una parola al mese. Penso che tutti noi, scrittori, lettori, amanti della lingua, dovremmo stare attenti e vegliare. In che modo? Usandole il più possibile, non restringendole ai loro ambiti consueti, del resto il mondo di ciascuno di noi coincide con il vocabolario usato e posseduto.
Ha contato quante categorie di abiti sono state inserite nel suo speciale catalogo?
A dire il vero non le ho contate, anche perché essendo portata alla sintesi, alla fine ne ho tagliate moltissime.
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