Cosa accade nella mente di un pedofilo? Il terribile racconto di “Nuvole di fango”
Nuvole di fango di Inge Schilperoord, edito da Fazi nella traduzione di Stefano Musilli, ci trasporta immediatamente in una storia dura e purtroppo di forte attualità.
Il trentenne Jonathan esce di prigione dove ha trascorso un po’ di tempo dopo essere stato condannato per pedofilia. È infatti attratto da bambine e la permanenza in prigione sembra non aver avuto alcuna influenza positiva su di lui e sulla sua pulsione.
Incontra infatti Elke, una bambina sola che sembra cercare la compagnia di Jonathan, complice anche la comune passione per il mare. Il libro di Shilperoord ci accompagna nella mente di Jonathan e nel suo tentativo di resistere a quella che per lui è una nuova tentazione.
Qui di seguito vi mostriamo un estratto delle pagine iniziale del romanzo, in libreria da ieri e in attesa di incontrare l'autrice l'11 luglio al Festival Letterature presso la Basilica di Massenzio a Roma.
Ora devo stare bene attento, pensò Jonathan. Ora. Inizia ora. Si mise le mani tremanti sulle ginocchia e strofinò lentamente il pollice destro sul sinistro nella speranza che il gesto lo calmasse. Era il suo ultimo mattino di detenzione. Come sempre era solo nella sua cella. La cella che gli altri, le guardie, chiamavano la sua “stanza”. Era seduto sul letto con gli occhi fissi verso la parete, e aspettava. Non sapeva che ora fosse. Presto, in ogni caso era presto. La prima striscia di sole era appena filtrata dalla fessura tra le tende troppo sottili. Forse le cinque e mezza, le sei. Oggi, del resto, non gli importava. Ho tempo, pensò, d’ora in poi ho tutto il tempo. E: arriveranno quando arriveranno. Quando sarà il momento, arriveranno. Io non posso farci niente; non verranno né prima, né dopo. Certo me ne accorgerò.
Fino al loro arrivo avrebbe guardato la luce del mattino avanzare sempre più nella sua cella, seguire lenta e imperturbabile il proprio cammino senza curarsi di nessuno. Era da molto tempo che non sapeva l’ora esatta. La prima notte lì aveva tolto subito le batterie dall’orologio alla parete: non sopportava il ticchettio. Per giunta le lancette non dicevano nulla che gli interessasse. Le attività diurne non erano obbligatorie e lui le lasciava agli altri. Giri in cortile, lezioni, sport. Lavoro. Chi non fumava, non man giava dolciumi e non comprava abiti costosi non aveva bisogno di soldi.
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Lui preferiva studiare la posizione del sole, la pienezza della luce, il modo in cui questa orlava le nuvole che scorrevano sopra le cime delle torri di vedetta. Così capiva quanto sarebbe durata, quanto ci sarebbe voluto perché calasse il buio. Quando sarebbe cessato quel chiasso: le voci degli uomini che salivano lungo i muri del cortile, la musica che risuonava attraverso le pareti. Ombre sul pavimento della sua cella, sul letto e sul tavolino. Ma le cose stavano per cambiare. «Sarà tutto diverso», sussurrò.
Attese. Fuori c’era ancora silenzio. Dopo un po’ si alzò, andò dal letto al tavolino, dal tavolino alla finestra, rimase lì per un momento e tornò al letto. Si sedette con un leggero scricchiolio delle ginocchia e si rialzò. Restò al centro della cella per qualche istante e poi tornò al tavolino. Guardò: sopra c’erano il libro della terapia, il quaderno, le matite, le penne. Il leggio che gli aveva mandato sua madre. Si sedette, drizzò la schiena e aprì il quaderno. Una bella pagina bianca, tutta vuota. Lisciò il quaderno con entrambe le mani, lo pose al centro esatto del tavolo, tolse il cappuccio alla penna e si mise a pensare. Dopo un bel po’ di tempo scoprì di non avere niente di sensato da scrivere. Si morse piano l’interno della guancia. Perché? Perché proprio oggi no?
Si alzò ancora e strinse i pugni. Andò dal tavolino alla finestra, dalla finestra al tavolino e di nuovo indietro. Si sedette sulla sedia. «Niente», scrisse. E poi: «Mai». Poi ancora: «No!». Chiuse di colpo il quaderno. Il resto sarebbe arrivato stasera, quando fosse stato di nuovo a casa e avesse fatto l’esercizio di terapia successivo. Poco più tardi, però, riaprì il quaderno, fissò quello che aveva scritto e lo barrò. «Diverso», scrisse sotto. Barrò anche quello: «Migliore».
Arrotolò il quaderno, prese il libro, ripose una a una le matite e le penne nell’astuccio e mise tutto nella borsa insieme al resto delle sue cose. Poi si sedette sul letto con le mani tremanti sulle ginocchia e aspettò il momento in cui la guardia avrebbe aperto la porta.
Ora devo stare bene attento, pensò Jonathan. Ora. Inizia ora. Era seduto all’ultimo finestrino, nell’ultima fila di posti sull’autobus per il paese. Non c’era nessun altro, eppure si era messo in fondo. La mattinata era lontana dal concludersi, il sole doveva ancora raggiungere lo zenit, ma faceva già un caldo tremendo. Una goccia gli colò dai capelli e scese lenta lungo la nuca fino a fermarsi in fondo alla schiena. Cambiò posizione. Teneva la borsa sulle gambe, ben stretta tra le braccia. Gli sudavano anche le ascelle. La borsa gli pesava sulle ginocchia; avrebbe preferito metterla a terra, ma per un motivo o per l’altro gli sembrò più sicuro restare così, con le dita saldamente intrecciate. Sospirò.
Tra lui e il mondo c’era il vetro, e oltre il vetro il paesaggio costiero, il più bello che conoscesse. Lì, un’insignificante domenica mattina di oltre trent’anni fa, era sgusciato fuori da sua madre. Da lì non se ne sarebbe più andato. Guardò il paesaggio come non aveva mai fatto prima, senza perdersi nemmeno un dettaglio: le cime dei pini e la luce del sole che illuminava esattamente le dune più distanti, l’erba sul ciglio della strada, l’acqua dei laghetti in lontananza. La luce scivolava insieme all’autobus sull’asfalto e lo arroventava. Faceva così caldo che non si sarebbe stupito se il catrame gli si fosse aperto davanti agli occhi, se avesse iniziato a scricchiolare e a sciogliersi da dentro. Grumi morbidi e appiccicosi come fango sotto le suole delle scarpe.
Chiuse gli occhi per un momento, li riaprì e volse di nuovo lo sguardo al cielo. La luce era di un bianco così accecante che quasi faceva male.
Superata la torre idrica, l’autobus imboccò un’ampia curva a destra, e lì la strada scendeva per poi risalire poco a poco dopo la curva successiva. La conosceva come le sue tasche, avrebbe potuto predire a occhi chiusi ogni curva e ogni buca lungo il tragitto. Qualche minuto al porto, pensò, e poi il paese. Dal finestrino semiaperto sul tettuccio entrò il vago tanfo dell’aria di mare: pesce, alghe, nafta, decomposizione. Corda.
Era qui, tra le dune, che avrebbe camminato oggi pomeriggio, forse già tra un’ora. Finalmente. Alla gente lui non piaceva, era sempre stato così, ma la natura lo prendeva per quello che era. Strinse le mani, le mantenne contratte e infine distese un dito dopo l’altro fino a sentire scrocchiare le articolazioni. Sua madre lo avrebbe aspettato a casa. Era sul divano, ci avrebbe scommesso, a guardare un programma televisivo del mattino. Gli sembrò quasi di sentire il rumore dell’apparecchio che ormai da anni poteva rompersi in qualsiasi momento. Tutte quelle sere passate accanto a lei, sulla sua solita sedia, l’odore del cane nella stanza. Le mani giunte che la madre teneva poggiate sotto al seno. Spesso lui leggeva «Natuurblad», ma non riusciva a concentrarsi sulle parole: le voci alla tivù gli penetravano nei pensieri. Allora metteva giù la rivista e guardava la madre che guardava lo schermo.
Pensò a quelle piccole cose, le cose che gli erano tanto familiari. Alle dita della mano destra della madre che si piegavano e si avvicinavano lente e distratte alla sua collanina finissima, a come poi lei stringeva la piccola croce d’argento tra il pollice e l’indice e iniziava a sfregarla. Allora lui capiva che qualcosa in tivù la stava avvincendo, qualcosa di cui avrebbe riso, sulla quale avrebbe richiamato l’attenzione del figlio. Pensò a come si faceva scorrere il rosario tra le dita quando pregava la sera.
Jonathan aveva le mani umide, sentiva il caldo del motore che rombava dentro l’autobus. Di tanto in tanto si guardava le unghie e tirava le pellicine intorno al mignolo, oppure si alzava leggermente dal sedile per vedere meglio e più lontano, strizzava gli occhi contro il sole e tornava a sedersi.
Osservò i gabbiani che volteggiavano col becco spalancato. A volte si bloccavano completamente, rimanevano come impietriti nell’aria. Ripensò agli uccelli di cui seguiva il volo dalla finestra della sua cella. Finché poteva. Il battere vigoroso delle ali. Quando gli planavano vicino, immaginava di sentire il fruscio dell’aria sulle loro penne. In fondo al quaderno della terapia annotava gli avvistamenti di uccelli particolari, segnando la data e il momento del giorno. Gabbiani tridattili, zafferani, uccelli delle tempeste, un’uria. Il registro gli restituiva un po’ di tregua da quel frastuono, quell’asfissia senza fine. Era tutto insopportabile, specie la vicinanza di tanti uomini. Gli odori nauseabondi del cibo.
Ma adesso era finita, all’improvviso, così come era iniziata. Nonostante tutto sembrava una cosa improvvisa. La settimana scorsa si era tenuta l’ennesima udienza in tribunale: tutto il giorno dietro al banco degli imputati; le parole del suo avvocato, che come sempre gli erano scivolate addosso.
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E ieri pomeriggio la lettera ufficiale della corte. Era stato assolto in appello. Inaspettatamente, malgrado ogni suo timore. Perciò era decaduto tutto: la pena detentiva già irrogata, il programma di riabilitazione. Le prove erano insufficienti. La maglietta sulla quale, secondo la dichiarazione della vittima, come diceva il procuratore, si sarebbero trovate tracce incriminanti, non era stata rinvenuta. «Il pubblico ministero potrà presentare un ultimo ricorso», gli aveva detto l’avvocato nel corridoio, «ma non credo che lo farà». Il caso si sarebbe potuto riaprire solo se fossero emerse altre prove. Ma chi sapeva se sarebbe successo? Per il momento era libero.
Per la prima foto, copyright: Steve Van Loy.
Per la seconda foto, copyright: Joseph Gonzalez.
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