“Cloud Atlas” di David Mitchell
Erano mesi che pedinavo l’uscita di Cloud Atlas. E settimane che provavo a finire di leggere il romanzo da cui è stato tratto questo film, prima di potermi sedere sulle poltroncine del cinema e guardare sereno il finale dei sei episodi che compongono la storia. Ovviamente non ci sono riuscito. Ero a tre quarti del libro quando decisi di andare comunque a vedere l’ultima perla dei fratelli Wachowski e Tom Tykwer.
Premetto che vorrei concentrarmi più sull’opera letteraria che su quella filmica per non allungare eccessivamente questo articolo, ma sarà inevitabile un confronto finale fra l’originale e la trasposizione.
Se dovessi descrivere con una sola parola il libro di Mitchell, userei “piramide”. Per vari motivi, primo la struttura: la storia è divisa in sei location spazio-temporali diverse. Un avvocato in viaggio nel Pacifico nel 1800 che libererà uno schiavo, un compositore giovane e capace che mentre scappa dalla sua vita viene assunto come copista da una vecchia gloria della musica lirica nel 1936, una giornalista negli anni ‘70 alle prese con una centrale nucleare che rischia di esplodere, un vecchio editore dei nostri tempi che viene rinchiuso suo malgrado in un ospizio da cui tenta di scappare, un clone cameriere in fuga da un governo tirannico e assoldata da un gruppo di partigiani nella Corea del futuro ed infine un giovane pastore in un tempo ancora più lontano, in un “post-apocalisse” dove si venera una dea con lo stesso nome della clone di cui sopra; tutti questi frammenti di esistenze sono descritti in ordine cronologico crescente e poi decrescente, come una strada che sale da una parte della montagna e ridiscende dall’altra. Piramidali sono anche le gerarchie in cui sono costretti i nostri protagonisti e monumentale è la storia che ci viene proposta. Un’opera notevole, quella di David Mitchell, che fatica nelle prime pagine a coinvolgere il lettore, forse per la sua divisione così marcata e caratterizzante di ogni episodio che non fa, in un primo momento, cogliere la portata complessiva dei temi affrontati. Lo scrittore si destreggia bene fra i diversi tipi di storie che ci propone, anche se lo stile non cambia di molto nonostante i diversi approcci messi in campo: narrazioni in prima o in terza persona, forma diaristica o epistolare.
Un fattore che entusiasma, invece, è la ricerca dei collegamenti fra i personaggi che ci vengono presentati. Nel libro viene fatta una descrizione meta-letteraria del modo in cui “tutto è connesso”:
«Un modello di tempo: una matrioska infinita di attimi dipinti, ogni elemento (il presente) è racchiuso in un insieme di elementi (i presenti passati) che io definisco passato reale ma che noi tutti percepiamo come passato virtuale. Parallelamente, la bambola dell’Hic et Nunc racchiude un insieme di presenti futuri, che io definisco come futuro reale ma che noi percepiamo come futuro virtuale».
Traduzione (esplicativa): tutto quello che facciamo è legato a passato e futuro, indissolubilmente. Una bella parabola della teoria dell’«effetto farfalla», ma anche una fonte di riflessione più profonda sulle nostre scelte e sulle loro conseguenze. Particolare menzione va alle lingue future, nelle quali viene immaginata e rappresentata una forte “brandizzazione” del mondo che ci circonda; al punto da assimilare gli oggetti al marchio di fabbrica che portano. Ecco che il lettore portatile di musica, immagini e affini diventa il “Sony” e gli orologi diventano banalmente tutti “Rolex”. Più attenzione ancora andrebbe posta alla “doppia evoluzione” della lingua parlata nel futuro post-apocalittico, ma qui subentra la traduzione dall’inglese e il confine diventa più ampio, investendo il “registro” dato alla lingua dell’edizione italiana rispetto alla lingua originale così come utilizzata da Mitchell.
Ma veniamo al film.
Il ritmo è senz’altro più veloce, rispetto al romanzo, con cambi di scena repentini, da un episodio all’altro, con la funzione sia di evitare quella lentezza iniziale di cui si è detto, sia di mantenere maggiormente viva l’attenzione su ognuna delle storie. Ma la vera differenza sta nell’inserimento di una vena buonista che collega tutti i personaggi delle storie, vale a dire l’amore. Se vogliamo dirla tutta, l’idea di far riferimento all’amore romantico che travalica le epoche, guidato dal fato, è notevole e riesce, per fortuna, in questo lungo(ma lungo veramente)metraggio, a non annoiare e a non risultare forzata. Si tratta di un cambiamento drastico di tono, che però non danneggia la godibilità di entrambe le opere. Non discuto sui tagli e aggiustamenti di trama dovuti a un cambiamento di medium, ma il messaggio che ci arriva dalle pagine è più crudo e meno superficiale di quello che ci mostra la pellicola. Anche la scelta di far interpretare i diversi personaggi delle storie dai medesimi attori, va interpretata per l’impatto visivo che ha sullo spettatore: un senso di eterno ritorno che vuole distaccarsi dal testo originale.
Vista anche la differenza di finale, consiglio di fruire di entrambi i prodotti: uno per la grande prova di uno scrittore che riesce ad approfondire argomenti molto potenti in una salsa digeribile dal grande pubblico; l’altro per godere di una traduzione per il cinema ben riuscita e che ci dà una diversa visione delle storie a cui ci siamo affezionati.
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