“Città amara” di Leonard Gardner, pietra miliare della letteratura sulla boxe
«Nel mezzo di una fantasmagoria di volti esausti e laceri,
guance e colli pieni di cicatrici, nasi storti, pustolosi, rotti
e gonfi, bocche senza denti, pezzi di denti marroni, gengive
vuote, barbe ispide, labbra rinsecchite, orecchie a sventola,
lividi, croste, bave di tabacco, spalle curve, sopracciglia tagliate,
occhi stanchi, disperati, attoniti, sotto le luci di Center Street,
Tully vide un giovane dall'aria familiare, col naso rotto».
Uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1969 e scritto da Leonard Gardner, è stato ripubblicato da Fazi nei mesi scorsi Città amara, con traduzione di Stefano Tummolini. Non è retorico ma necessario cominciare col dire che si tratta, insieme a Il professionista di W. C. Heinz, di uno dei testi più significativi mai scritti sul mondo della boxe. Tra gli altri grandi narratori del ring ci sono senza dubbio Norman Mailer (basti citare La sfida, che racconta forse l'incontro più leggendario del secolo scorso), Nelson Algren (Mai venga il mattino, L’uomo dal braccio d’oro) e Joyce Carol Oates. Proprio quest'ultima nel suo Sulla boxe (che racchiude pagine sacre per chiunque voglia scrivere sull’argomento) definisce il libro di Gardner come «Una specie di manuale del fallimento».
È esattamente questo, dunque, il fallimento, qui visto da diverse angolazioni: quella di Billy Tully, pugile che va per i trenta eppure la sua vita gli sembra già finita; e poi quella di Ernie Munger, giovanotto di belle speranze ma senza i numeri del campione. Tully si è dato alla bottiglia e vive in uno schifo di hotel, prima faceva il cuoco senza saper cucinare mentre ora fa lavoretti agricoli e poco remunerativi per sbarcare il lunario, come capare le cipolle, sfrondare i pomodori, raccogliere le nocciole.
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La sua carriera da professionista è andata a rotoli da quando la moglie l'ha mollato e adesso si allena allo YMCA. È lì che crede di scoprire un talento in Munger, più giovane e vitale, ma anche più ingenuo: gli basterà salire sul quadrato la prima volta per capire che no, il pugilato, quello vero, è tutta un'altra cosa. Dunque al tracollo economico, fisico e morale del primo si associa il tracollo delle illusioni del secondo, che presto si ritrova con una moglie e un figlio a carico senza desiderarlo, un lavoro a una stazione di servizio fino alle due del mattino e qualche KO non preventivato. Ma per loro ci sono ancora incontri da dover combattere e magari qualche speranza di venir fuori dal fango in cui si trovano.
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Gardner parte dalla basilare regola cechoviana «Scrivi su ciò che conosci»: in questo caso il pugilato (da ragazzo era un pugile dilettante, e a sua volta lo era stato il padre) e Stockton, cittadina della California centrale, dove l’autore è nato e vissuto. La Fat city del titolo originario, la terra dell’abbondanza non è solo Stockton: è ciò che ognuno sogna finché non si scontra con il muro della realtà. C'è la bellezza dei campi e dei frutteti, la ricchezza della terra coltivata, ma anche un concentrato di taverne di basso rango e bordelli sparsi, un ricettacolo di ubriaconi che sprecano il loro tempo e che nulla possono contro un'inevitabile decadenza. Nessuno si salva dall'ombra del fallimento, i due protagonisti, perdenti persino nelle vittorie, così come i comprimari (gli “sparring partner”, per usare un termine pugilistico): l'alcolizzata Oma e il fidanzato Earl, che fa la spola tra la libertà e il carcere; il messicano Arcadio Lucero, solo un altro pugile sulla via del tramonto; il manager Ruben Luna, che deve eternamente avere a che fare con tipi incostanti come Tully ed eterne promesse come Munger, aspettando il campione. In un contesto interrazziale in profondo mutamento, sfilano messicani, indiani, bianchi e neri. Ma poi sul ring sono tutti uguali.
Alternando i capitoli tra i due protagonisti, una scrittura lucida e di rara precisione avanza rendendo nitido anche ciò che esiste di più torbido, come la depressione, la disperazione, la ricerca di un amore impossibile da trovare o ritrovare. Le azioni parlano per i personaggi, e quando non sono quelle ci pensano i dialoghi, semplici e potenti come nella vita di tutti i giorni. Allenatori, secondi e manager discutono tra loro di sangue e piscio, e poi può capitarti di incontrare un ragazzino nero che si chiama Buford Wills e ti dice roba così: «Sperare non è mai servito a niente. Devi volere la vittoria. Devi volerla così tanto da sentire il sapore in bocca. E se la vuoi davvero, vinci».
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Scrittore da un unico colpo, oggi ottantaduenne, Gardner durante la sua carriera è stato anche giornalista sportivo e sceneggiatore. Proprio attratto dal cinema (e in seguito dalla televisione), dopo il grande successo ottenuto col romanzo ne scrisse anche la sceneggiatura; il film, diretto da John Huston nel 1972, tra l’altro ne riflette l’anima oscura e disperata, anche se sul grande schermo prevale la figura di Tully (Stacy Keach) su Munger (un giovanissimo Jeff Bridges) e il finale sacrifica rispetto al libro una scena fondamentale che riguarda quest'ultimo, un abbandono reale e simbolico allo stesso tempo. Notevole anche la postfazione di Antonio Franchini per questa edizione Fazi di Città amara, vera e propria pietra miliare della letteratura sulla boxe firmata Leonard Gardner.
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Commenti
ciao secco, John Huston ne hanno fatto un bellissimo film http://mr.comingsoon.it/imgdb/locandine/big/10649.jpg ;)
Certo! Davvero un gran film, riuscito alla perfezione il ritratto di due falliti esemplari. Nell'articolo semmai facevo notare il taglio nel finale di una scena significativa del libro... ma tutto sommato pellicola meravigliosa
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