C’è del marcio in Romagna, parola di Davide Bacchilega
«Quando si pensa alla Romagna viene in mente gente simpatica che balla il liscio, ragazze ben disposte con la esse appesantita e vitelloni abbronzati sulla spiaggia riminese. Ma ci sono anche inverni che non finiscono mai, e nebbie spesse da non vederci». Così scrive Davide Bacchilega nel suo ultimo romanzo, appena uscito per Las Vegas edizioni: Più piccolo è il paese, più grandi sono i peccati.
Che la Romagna non fosse una terra soltanto di mare e sole, ma anche di umori cupi, ce l’aveva già ricordato Federico Fellini nel suo bellissimo Amarcord, in quella che forse è la scena insieme più bella e terribile della sua intera carriera cinematografica. Il vecchio della famiglia esce di casa la mattina e si trova davanti a una nebbia fittissima; la via improvvisamente “oscura”. Arriva un uomo in bicicletta che per poco non lo mette sotto. A parte questo non sembra esserci anima viva (l’anziano fa una breve lista delle cose scomparse: la gente, gli alberi, gli uccellini per aria…). «Se la morte è così, non è un bel lavoro», dice a un certo punto il vecchio, agghiacciato da tanta desolazione.
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Bacchilega descrive proprio questa desolazione: la Romagna, avvolta da un “paesaggio gotico” e invasa dalla nebbia («…campi invisibili sotto lampioni timidi, casolari spettrali, tra alberi rachitici, e poi più tardi, sagome di centri commerciali dietro guardrail incrinati, cinema multisala fra cartelloni pubblicitari imbrattati»). Invasa dal senso di morte.
Bacchilega ha già scandagliato il marcio della provincia con I romagnoli ammazzano al mercoledì. Il suo è uno stile teso, immediato, che gioca anche con i cliché del noir, dell’hard boiled (ad esempio, le frasi a volte ripetute come un mantra dai personaggi).
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La storia del suo ultimo romanzo racconta di tre ex squillo che prima di Natale ricevono lettere minatorie senza sapere chi sia il mittente. Da qui parte una specie di Spoon River della Romagna (nello specifico, la provincia di Ravenna), il cui massimo cantore è Michele Zannoni, giornalista di “nera” per il giornale locale, che va in giro con la sua Punto per le strade romagnole, a caccia di morti violente con cui tappezzare la prima pagina del suo quotidiano e la bacheca di casa. Zannoni ricorda ogni omicidio di cui ha scritto, in una specie di Golgota infinito che non può fare a meno di ripercorrere magari imbottito di Roipnol, così da placare i suoi demoni interiori («La mia passione sono gli omicidi. Anche la vostra, lo so. In questo siamo complici. Voi davanti alla pagina e io dietro. A ciascuno il suo»).
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Molto spesso nel suo eterno, allucinato girovagare incrocia Mauro, che per lavoro fa il tanatoprattore (deve “rendere belli” o almeno decenti i cadaveri frequentemente deturpati da traumi o ferite). Mauro svolge il suo compito con una maniacalità da perfezionista. Inoltre, ha una vera e propria passione per i quiz televisivi (soprattutto per Chi vuol essere milionario?).
C’è una donna, Marta Valbonesi, il primo e forse unico amore di Zannoni quand’era ragazzo, che va sempre in quella strada, all’altezza della pensilina dove il figlio quattordicenne, Mattia, si è andato a schiantare con il motorino. Ci va per appendere uno dei tanti messaggi che fanno di quella pensilina una specie di “cappella post-moderna”. C’è una prostituita, Giorgia, che non riesce a ricordare i volti dei clienti con cui è stata… Sono personaggi che si portano dietro una ferita, una mancanza e che fanno di questa mancanza, di questa ferita un’ossessione. Un’ossessione che curano amorevolmente perché è l’unica cosa che li fa sopravvivere nel loro “inverno infinito”, fino al momento in cui anche l’ossessione produrrà i suoi effetti velenosi.
A far da contorno c’è tutto il marcio appunto della provincia: poliziotti che fanno il doppio gioco, papponi, borghesi dalla doppia vita… (c’è anche un cane il cui nome è tutto un programma, Arrigosacchi, che sparge merda liquida dovunque).
Leggendo questo libro mi sono venuti in mente altri due riferimenti cinematografici: The Fog di John Carpenter, con la nebbia che assurge quasi alla dignità di personaggio insieme ai protagonisti della storia raccontata; i film di Claude Chabrol, il regista della Nouvelle Vague che più di chiunque altro ha indagato, sviscerato, illuminato i peccati e i vizi della provincia, il cui perbenismo è soltanto una posa posticcia o poco più. Anche il modo di presentare la storia è molto cinematografico: una serie di monologhi dei personaggi che entrano in scena durante lo sviluppo della storia. L’ultima frase di ogni monologo è l’attacco di quello successivo, in una catena, in un girotondo noir che avvolge la provincia come la nebbia onnipresente. Ma poi il nucleo “caldo” del libro è racchiuso in quel vhs ormai vecchio e frusciante, quello che Michele conserva ancora gelosamente. Il vhs con la data fatidica: estate 1989. Michele e Marta, ragazzi, che sorridono felici e si amano. Era il 1989. Allora sembrava tutto ancora possibile… finché non è scesa la nebbia.
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