Argentina, un’ombra ben presto sarai
L’Argentina dell’era recente è un puzzle di eventi intrecciati tra loro, accavallatisi come onde sulla riva che si generano impetuose, che acquistano velocità in un attimo e poi si spengono sulla sabbia, lasciando conchiglie spezzate e cadaveri di pesci travolti. È l’Argentina della ricchezza sfumata del primo Novecento, del Perón mitizzato e della sua carismatica Evita, della dittatura dei “desaparecidos” e dei collassi economici da record. Esperienze collettive accumulatesi senza mai evolversi, fini a se stesse, blocchi non articolati di momenti universali giustapposti l’un l’altro. E quel che è rimasto ora all’orizzonte, in un panorama nazionale piano come le sue pianure, è lo spettro della disillusione. I ricordi sono carne viva che alimenta il tempo presente, la terra fertile in cui ripiegare se mancano i frutti, mentre il futuro è un deserto imperversato dai forti venti delle pampas che tutto travolgono.
E se la letteratura è la sintesi organica dell’anima e del pensiero di un popolo (come direbbe Francesco De Sanctis), nel romanzo di Osvaldo Soriano Un’ombra ben presto sarai (edito da Einaudi nella traduzione di G. Felici) c’è tutto il sapore della Storia argentina messa tra le mani incoscienti dei destini particolari quali sono i personaggi del libro. Il racconto narra di un ingegnere di computer che si ritrova per caso in una non identificabile parte della pampa, arrivato su di un treno che si è fermato lì e lo ha risputato senza un soldo. L’uomo, che si dirige probabilmente al sud, si mette a girovagare alla ricerca di una strada asfaltata e di una stazione di servizio in cui chiedere il rimborso del biglietto. La vicenda finisce con il protagonista che, dopo aver vagabondato per queste terre fuori da tutte le mappe, ritrova lo stesso treno, fermo e senza gente, e sale a bordo, in attesa che riparta. La storia è una non storia, nessuno scioglimento dell’enigma, nessuna evoluzione, nessuna esperienza da considerarsi pietra miliare del vissuto. Nel lasso di tempo in cui l’uomo scende dal treno e vi rientra, le cose accadono, e ne accadono parecchie, ma si accostano senza sommarsi, e sfumano nella polvere di strade che non portano da nessuna parte. Per quanto abbia dei punti in comune, non possiamo parlare di romanzo “on the road”, poiché manca completamente la spinta individuale e rivoluzionaria del protagonista: da parte sua non assistiamo a praxis alcuna, quanto piuttosto a un tacito lasciarsi trasportare alla deriva dalla corrente della vita senza troppe resistenze, quasi compiacendosi nel riscoprirsi perdente. Perdente lo è ogni personaggio che spunta e sparisce tra le pagine, ognuno portatore di un progetto di vita franato alle spalle dal quale tenta di fuggire o al quale si cerca di riparare.
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Il non luogo in cui si svolgono i fatti sembra essere il naturale bacino di raccolta dei vinti, giacché non vi si accede se non per errore. È il lembo di fiume in cui si sono arginate le esistenze dal braccio corto, la piega larga che intrappola tra i labirinti di giunchi e canne umide. Un ex padrone di circo che ha venduto tutto per andare a far fortuna in Bolivia, un ex banchiere con la fissa del gioco d’azzardo, una chiromante che sopravvive indovinando destini altrui, un aspirante commerciante che lava i gauchos con la sua doccia portatile, preti che assicurano che un ricco può passare per la cruna dell’ago, militari che combattono una guerra inesistente, tutte figure grottesche quanto stralunate ritrovatesi per caso a condividere sporadici pezzi di esistenza, ognuno con la propria sconfitta addosso. Eppure qui non c’è spazio per quell’istinto di unione e solidarietà proprio della disperazione, i destini si intrecciano ma non si amalgamano, non si penetrano e non si contagiano, si toccano lo stretto necessario per sopravvivere e poco più. Sarà che la disperazione è una presa di posizione cosciente, il sapersi disperato implica un auto-riconoscimento che evidentemente manca ai nostri anti-eroi, i quali si credono lì per un lieve imprevisto del percorso, una deviazione momentanea in attesa di ritrovare la strada asfaltata che porta al senso delle cose, la direzione certa e illuminata del così dev’essere.
Ma è proprio così che deve essere, ed ecco la tragedia senza catarsi: i loro destini sono inchiodati nel luogo al quale appartengono, senza saperlo. Poco importa che si giochi d’azzardo o alle carte per correggere il futuro, per scriverlo senza fatica e lasciarlo al caso, poiché il futuro è già intessuto inesorabilmente in questo presente statico che se lo mangia e rimangia, come onda dopo onda sulla stessa spiaggia. È la solitudine che li accomuna e li affonda nel pantano della palude. Solo il protagonista sembra essere conscio della sua posizione di perdente, e accetta tale compromesso con la vita senza chiedere altro in cambio che non sia lo stretto necessario per la sopravvivenza. I sogni li ha lasciati sul treno che lì lo ha vomitato, e si arrende al flusso delle cose con un piacere quasi perverso.
La storia è un girotondo, «un viaggio circolare, un viaggio interiore. Le tappe percorse non sono esperienze che si accumulano; tutto succede e sfuma allo stesso tempo, in quell'istante immutabile nel quale i ricordi personali si giocano alle carte» e del passato non resta che una malinconica quanto malconcia idea di grandezza che ha spento la propria luce.
Eccola l’Argentina, spogliata e ritratta. Una terra costruita su sogni puntualmente traditi. Argentina, dal latino “argentum”, fu chiamata così perché si pensava fosse ricchissima del metallo prezioso, materia di cui non è mai stata effettivamente abbondante come si pensava. È una terra che così non dev’essere, e vive incastrata nel fardello di questa dimensione, incapace di superarsi e di trovare la strada. L’orizzonte comune viene spazzato via a momenti alterni dai venti dei momenti e dei movimenti storici, che radono al suolo tutto quel trovano e quello che era cresciuto. Le piante dei sogni hanno radici fragili e non resistono alle violente scosse del tempo, e non rimane che una radicata fissazione di un’apocalisse incombente: il futuro è una spada di Damocle pronta a tagliare teste, come, appunto, ha già fatto. Meglio allora ripiegare sulle ombre del passato e arrangiarsi nel sopravvivere qui e ora, hic et nunc, senza rimandare la felicità ad alcun progetto, perché – come dice un verso di un tango di Gardel ripreso da Soriano come titolo dell’opera – una sombra ya pronto serás, un’ombra ben presto sarai.
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