Anne Sexton, la potenza della parola. “Dio nella macchina da scrivere” di Irene Di Caccamo
Puntata n. 53 della rubrica La bellezza nascosta
«Il cielo è liquido e il vento sembra non sia passato di qui, e che non si sia mai divertito a smuovere le onde, a giocare di spruzzi e accendersi di spuma lucente. Oggi sono stranamente felice di fronte a questo mare e in queste giornate tornate calde. Intanto muovo i piedi piano e se li tengo fermi la trasparenza li restituisce agli occhi, diventa una seconda pelle, la illumina. Annullo subito i pensieri in questo giorno acceso di sensi e di luce, in verità mi piacerebbe distendermi in questo letto trasparente e leggero e potrei anche berla quest’acqua, è davvero di una purezza terribile. Vorrei rimanere qui tra nuvole e cielo fino alla fine delle ore e vedere il sole incendiarsi, morire oltre quella linea irraggiungibile.»
C’è una foto in cui una donna è china sopra una macchina da scrivere. Nel posacenere, alla sua sinistra, una sigaretta si consuma lentamente, da sola; la donna ha i capelli neri e mossi che le arrivano appena sotto gli zigomi, gli occhi fermi, occhi di ferro, occhi quasi bianchi, sul foglio di carta che scorre a ogni tocco, a ogni dito che batte sulle lettere. La fotografia è in bianco e nero, e possiede una grazia antica e si vede anche una bottiglia di birra, forse vuota, forse piena a metà. Quello che non si vede, invece, sono gli psicofarmaci e le botte emotive, sono i lividi sotto la pelle e la sofferenza mentale, quello che noi non possiamo vedere è tutto ciò che c’è di più importante.
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La donna nella foto è Anne Sexton, poetessa premio Pulitzer nel 1967; questa fotografia, poi, inizia un racconto tutto personale fatto di bellezza e di grazia e di libri che traboccano dagli scaffali e di concentrazione, ma quello che non possiamo sapere è che quei fogli che quella donna sta riempendo di parole sono l’unica cosa che possa somigliare, per lei, a una sorta di salvezza.
Irene Di Caccamo è nata a Roma nel 1967, il libro Dio nella macchina da scrivere è stato pubblicato da La nave di Teseo.
Il 4 ottobre 1974, Anne Sexton si suicida nel garage della sua abitazione, inalando i gas di scarico dell’automobile. La poetessa americana, una delle più grandi scrittici in versi del Novecento, soffriva di gravi disturbi mentali. In questo libro si provano a ripercorrere le contraddizioni e le stravaganze e i dolori di una donna bellissima e sui generis, che con la potenza della sua parola è riuscita a rimanere aggrappata alla vita, almeno fin quando ha potuto. I suoi amori e i suoi odi, i figli e i rapporti con gli altri artisti dell’epoca, in un ritratto denso e toccante di un mondo emotivo lontano da ogni stereotipo.
«Dal mio dottore parlando degli ultimi tempi. “Non so perché i miei stati emotivi oscillino così di continuo, o sono euforica o depressa e vicino alla morte, o terribilmente in preda ai miei sintomi. Io davvero non so se questo è solo un modo per difendermi da ciò che non capisco di me stessa.” Lui. “Questa oscillazione è il ritmo espressivo della sua vita Anne, diciamo che la sua energia per ora ha transitato per strade sbagliate, e anche se tutto questo è denso di significato è bene farci i conti, e rompere questo circolo vizioso, magari creando qualcosa che somigli di più a un vero rapporto d’amore per se stessa.” “Come è possibile?” chiedo io. “Ma lei in fondo l’ha già fatto Anne, la scrittura non è altro che questo.”»
Irene Di Caccamo ci consegna un libro luminoso, pieno di una forza che viene fuori da ogni singola frase; con uno stile accorato e delicato, entra nella mente di Anne Sexton, e con parole che a tratti pesano come pietre, ci mostra una strada, ci mostra un sentiero da prendere per cercare di capire dove può condurre la follia umana, e cosa significa sentirsi sempre vicini alla morte.
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Dio nella macchina da scrivere non è una biografia, ma, come ci dice la stessa autrice, è una riscrittura; la libera interpretazione di una vita. Il risultato finale è un romanzo, una narrazione serrata e gonfia di bellezza, dove una scrittura minimale ed elegante ci porta nei giorni di sconfinata dolcezza e tristezza e dolore di una donna in lotta perenne con se stessa.
«Un abito rosso lungo mi avvolge completamente. Salgo in auto, e quando sono vicina al college di Rosa lascio la macchina per camminare. Non so che ora sia e intanto bevo il latte dalla bottiglia che ho portato e mando giù piano tutte le pillole che ho nella mano. Dopo un po’ mi ritrovo davanti a un immenso ponte che raggiunge l’altra parte della riva, una promessa di infinito che però sparisce e si annulla subito nel buio. Procedo lenta verso quella strada di libertà ma l’incertezza della mia mente confonde i passi, per un po’ volteggio nell’aria leggera e le mie braccia stringono vuoto, poi improvvisamente cado a terra. Un uomo sbuca da non so dove e si avvicina immediatamente a soccorrermi. Ho il cielo in fondo agli occhi. Finisco così in ospedale vestita a festa e senza parole per nessuno.»
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Di quella fotografia in bianco e nero vorremmo poter avere altre informazioni, ci piacerebbe, forse, poter avere di ritorno i rumori e i suoni di quel momento, il ticchettio della macchina da scrivere, il chiasso metallico della bottiglia di birra che tocca i denti. Ma una foto non è altro che un pezzo di passato che si ferma per sempre, e non può parlarci di niente se non di un istante; una foto è brava a nasconderci tutto il resto, perché può immortalare un sorriso, un sorriso meraviglioso, pochi secondi prima del pianto, di lacrime che saranno, per noi, sempre sconosciute.
Per la prima foto, la fonte è qui.
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