Alle origini del Food writing
[Articolo di Rossella Di Bidino pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 5/2013, La gioia dell’incontro]
Lo chiamano Food writing. Sapori, colori, incontri si mescolano fino a trasformarsi in narrazione. Il cibo diventa l’argomento della scrittura. E molteplici diventano i generi letterari attorno a cui ci si muove. Non ci si ferma al classico libro di cucina, in cui gli ingredienti vengono elencati e le azioni da compiere specificate passo per passo in maniera asettica. Questo è quello che si vuole evitare. La noia viene bandita con l’obiettivo di rendere il cibo un’esperienza sensoriale ed emotiva condivisibile.
Così il food writing può diventare saggio, articolo giornalistico, biografia, ricerca storica e persino racconto. Il racconto può essere romantico, storico e, a volte, pure giallo. Il food writing è quasi un genere di scrittura senza genere letterario predefinito.
Il food writer si sforza di dare dignità al più comune dei bisogni umani e degli oggetti quotidiani. Dato che oggigiorno il cibo, per chi ce l’ha, è diventato un’ossessione a cui vengono dedicati programmi televisivi e blog, si potrebbe anche pensare che il food writing sia nato da poco. Ma esso, invece, affonda le radici nell’Ottocento. Probabilmente il primo libro scritto da un food writer è stato La fisiologia del gusto. Nel 1825, il gastronomo francese Jean-Anthelme Brillat-Savarin trascrisse le sue meditazioni sui piaceri e la civiltà della tavola. Poco tempo dopo Alexandre Dumas, nel 1835, nel suo Grande Dizionario di Cucina mescola memorie di viaggio con ben 3.000 ricette. Si tratta, però, ancora di esperimenti isolati.
Quando sia nato veramente il food writing è questione dibattuta. Due figure svettano nell’Olimpo del food writing moderno: M. F. K. Fisher ed Elizabeth David. Donne, viaggiatrici e scrittrici. Entrambe con un forte legame con la Francia e l’Italia. Una statunitense e l’altra inglese. «Perché scrivi del cibo, del mangiare e del bere? Perché non scrivi della lotta per il potere e per la sicurezza o dell’amore, come tutti gli altri?» Era questo che i lettori chiedevano a Mary Frances Kennedy, poi M. F. K. Fisher. La sua riconosciuta capacità nello scrivere quasi motivava, ai loro occhi, la necessità che lei si dedicasse a temi ritenuti più seri. Lei, però, è piuttosto perentoria in The Gastronomical Me, dove dichiara in apertura: «La risposta più semplice sarebbe che, come tutti gli altri esseri umani, sono affamata. Ma c’è molto di più di questo. Ritengo che i nostri tre bisogni primari, cibo, sicurezza e amore, sono così legati e intrecciati tra loro, che non possiamo pensare ad uno senza considerare anche gli altri. Così succede che quando scrivo di fame, io scriva in realtà anche dell’amore e del bisogno di sicurezza».
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Per «la miglior prosatrice d’America», secondo W. H. Auden, e per «la nostra poetessa degli appetiti», per John Updike, il food writing è in grado di raccontare quasi l’intera esistenza umana. M. F. K. racconta talmente bene cibo e uomo che i critici non esitano ad affermare che lei scrive di cibo così come altri scrivono d’amore, solo decisamente meglio.
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