Intervista a Gianrico Carofiglio
Autore: Morgan PalmasGio, 21/10/2010 - 10:56
Di Morgan Palmas
Gianrico Carofiglio si racconta a Sul Romanzo
Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinato alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Avevo otto anni quando pensai che mi sarebbe molto piaciuto scrivere storie. E in effetti ne scrissi parecchie, fino ai quattordici, quindici anni. Poi pensai di prendermi una pausa, che durò fino al 2000, quando ho cominciato a scrivere il romanzo che si sarebbe intitolato Testimone inconsapevole. Escluderei che si sia trattato di un caso fortuito.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
Esattamente a metà strada, direi.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Niente metodo, anche se mi piacerebbe molto averne uno. Ognuno dei miei libri ha una storia di scrittura diversa. Perlopiù procedo in modo disordinato e caotico. Il senso si intravvede solo alla fine.
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Non ho qualcosa di cui non posso veramente fare a meno. Mi piacciono le interruzioni, però. Mi piace sospendere con frequenza. Per fare qualche esercizio di ginnastica, ascoltare della musica, leggere un libro o il giornale.
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
Non saprei dire se sia cambiata. Io non ho rapporti con gli altri scrittori, del passato o del presente. Mi interessano solo (quando sono interessanti) le cose che hanno scritto.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Mi sembra che la concentrazione di scrittori a Bologna sia altissima, ma suppongo sia un dato casuale. Per il resto, appunto, le nuove tecnologie hanno mutato anche le categorie di confronto fra centro e periferia.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Sicuramente migliorato, da tutti i punti di vista.
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