In tutto il mondo “La lingua va dove gli pare….”, ma parte sempre dalle origini
Autore: AnonimoGio, 18/03/2010 - 11:14
Di Alessia Colognesi
Sono seduti tutti uno di fianco all’altro, Timothy Whagusa è nato in Uganda, è uno scrittore e fa l’insegnante nell’Università africana di Makerere, Natalia Molebatsi è una scrittrice e poetessa di talento, proviene dalla township di Tembisa, vicino a Johannesburg, la sua lingua madre è il sesotho, è un’artista della parola trasmessa oralmente e una cantante, scrive le sue poesie in inglese, ma le recita nella sua lingua madre.
Chika Unigwe è nata in Nigeria, è una scrittrice trentenne afrobelga, laureatasi in letteratura inglese con un dottorato di ricerca in Olanda, è la prima scrittrice africana ad aver scritto un romanzo in fiammingo.
Seduta in mezzo a loro c’è Nadine Gordimer, ha la pelle chiara e il viso segnato dal tempo, i suoi occhi neri guizzano brillanti sulla sua voce tremula, illuminati da una chioma di capelli d’argento raccolti sulle spalle in un piccolo chignon.
C’è l’Africa intera davanti a me, tre generazioni di artisti africani giunti al Festival di Letteratura per parlare “d’Africa ad alta voce”, fino a pochi decenni fa ciò non sarebbe mai potuto accadere.
Sotto il tendone più grande del Festival di Mantova in un cortile di un antico palazzo rinascimentale, l’Africa non mi sembra lontana, è solo ricca di suoni e colori e una folla policroma sta zitta ad ascoltarla.
Osservo da lontano Nadine che parla del Sudafrica mentre i suoi occhi le illuminano il viso, la sua Africa è quella che lotta contro la discriminazione razziale con la letteratura.
Divenuta premio Nobel nel 1991, la Gordimer ha scritto 19 libri, tradotti in venti lingue diverse, le sue parole da sempre si battono contro le ipocrisie del potere e l’arroganza del male.
La scrittura per lei, figlia di emigranti nell’Africa del sud, è l’espressione più vera di un popolo e proprio per questo crede che ogni stato del mondo dovrebbe tutelarla.
In Africa esistono molte lingue, quelle popolari, quelle dell’Europa coloniale e quelle nate nella storia dalla fusione degli idiomi che l’hanno attraversata.
L’inglese e il francese dei coloni si sono trasformati a contatto con le parole delle lingue africane e per mezzo dell’arte sono divenute la manifestazione viva del popolo africano.
Mentre i giovani poeti leggono poesia, la beatboxing in sottofondo disegna musica nell’aria di fine estate di una città italiana e le parole sono il ponte che unisce l’Africa di un palcoscenico letterario al mondo intero.
Il teatro sudafricano è una delle espressioni artistico-letterarie moderne più significative, capace di rafforzare il senso di appartenenza di un popolo così variegato alla sua terra.
La voce dell’Africa nei teatri mette in scena le lingue popolari del continente africano insieme ai nuovi codici linguistici dei movimenti giovanili e fa della lingua un codice unico che abita un luogo in cui è bello comunicare per sentirsi indissolubilmente in sintonia con le proprie radici.
Non importa che gli spettatori riescano a decodificare tutte le lingue dello spettacolo, quello che conta è che le odano, accarezzandone le sfumature e i suoni.
La comprensione nell’arte nasce dalla lettura di tutti i linguaggi dei sensi che nel teatro trovano la massima espressione. Il corpo, la voce, i silenzi attraversano la scena arrivando diritti agli spettatori.
Sul palcoscenico della letteratura orale la lingua è viva e sfugge all’omologazione culturale, ma è indubbio che l’arte verbale come ogni altra espressione artistica ha una propria forma, ritrovarla nell’oralità è il segreto della sua trasposizione in forma scritta.
In Africa l’arte non si esprime solo con l’oralità, esistono testimonianze di scrittura precedenti a quelle europee. Impressa sulla carta la parola diventa salvezza, ferma il presente in modo che non possa cadere nell’oblio e diventa arte quand’è letteratura.
La lingua è l’espressione di un luogo, di un tempo e di un modo di essere se inseriti in uno spazio vitale, proprio per questo, come diceva Calvino: “Va dove le pare…”.
Leggere uno scrittore e la sua lingua ci fa entrare in contatto con lui quasi come se la narrazione divenisse l’espressione di una relazione empatica tra il narratore e il suo lettore.
Per uno scrittore trovare un proprio linguaggio espressivo è svelarsi intimamente al pubblico.
“Ogni scrittore è costretto a costruirsi la propria lingua, a spostarne i confini, a spingerli oltre i limiti concordati. Lo scrittore ha l’incarico di inventare la lingua, cioè di ricrearla, di trasformarla in una sorta di lingua straniera, che non è un’altra lingua, né un dialetto rivalutato, ma un diventare altro della lingua.”
[Proust]
Fu così che il primo giorno del Festival mi balenò una domanda tra i pensieri:
“Cosa accomuna la letteratura africana a quella italiana?
Dopo alcuni giorni m’imbattevo nella risposta.
È primo pomeriggio, al Festival s’incontrano due giovani scrittori, sono uomo e donna, entrambi italiani, scrivono per case editrici minori.
Lui è di Piacenza, somiglia ad un mio vecchio vicino di casa: alto, moro, montatura in metallo satinato e viso comunicativo.
Lei è più seria, è nata in un paese delle campagne venete, non parla molto, è di poche parole e davanti alla platea nell’androne del Liceo Classico della città sembra essersi intimorita.
“Scrivo dei miei personaggi a partire dal basso, con lo sguardo a raso terra quasi ancorandoli al luogo dove sono nati, così li rendo più credibili” esordisce con la voce squillante, Paolo Colagrande, e parla della lingua che ha creato per il suo primo libro intitolato come un’esclamazione del dialetto piacentino, Fideg (fegato).
Fideg l’ha scritto plasmando una lingua tutta sua fatta d’intercalari popolari, italiano dotto e lingua parlata trasposta sulla carta.
Il risultato è un libro surreale con un impasto linguistico personalissimo a tratti ironico, malinconico, in cui il linguaggio mette in scena come in un teatro africano le parole delle origini e quelle più attuali in una metamorfosi di umori.
Gisela Scherman sorride mentre ascolta il collega parlare del proprio modo di scrivere e in un momento di silenzio la si sente sussurrare:
“Da rasoterra si vede ciò che dall’alto è impossibile vedere, la scrittura mi ha riportato ai luoghi della mia infanzia e per farli parlare non ho potuto che usare la lingua delle mie origini, il dialetto della campagna veneta, dei pranzi della domenica e del budino variegato alla vaniglia”.
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