Il mondo visto da Mosca: all’uscita della Chiesa
Autore: Morgan PalmasLun, 15/03/2010 - 11:20
Di Sara D'Ippolito
Da una settimana é iniziato il grande Digiuno di Pasqua. L’inverno invece prosegue lento e costante. Cade la neve e agli angoli delle strade, così come sui tetti delle case e nei cortili uomini con la pala non fanno che rimuovere il ghiaccio. La chiesa si chiama “Gioia di tutti gli addolorati”. Sorge prorio accanto alla stazione della Metropolitana, a destra del noto fast food McDonald’s. Nonostante ciò, trovandosi al suo interno si compie il miracolo del silenzio, come in tutte le chiese del paese.
La chiesa è affollata oggi pomeriggio. Arrivo in ritardo, come sempre. Tutti mi sembrano molto più informati di me su quello che sta succedendo qui dentro. Diaconi e sacerdoti a tratti sfilano fra la folla spostandosi da un’ala all’altra della chiesa. Alcune donne accendono candele, altre spengono le candele che già smoccolano, altre ancora strofinano con cura che definirei eccessiva i vetri che proteggono le icone. Sono vecchie, spose, madri e persino bambine. Qualcuno fra gli uomini presenti legge con attenzione triste da un libricino. Di sera la Chiesa é più confortevole che al mattino, perché illuminata dalla sola luce delle lampade a olio.
In questi giorni sto leggendo “Pensieri sulla Divina Liturgia” di N.V.Gogol. “Dolorante per il proprio disordine, l’umanità da ogni parte, dagli estremi confini del mondo si appella al suo Creatore...”, così inizia il libro. Gogol scrive che nella simbologia liturgica ortodossa i diaconi rappresentano quegli angeli che officiano lassù, lontano lontano, nei cieli che nonostante tutto sono ancora sopra di noi. Ora alla vista dei diaconi non posso fare a meno di sorridere. Eppure se li incontri dopo la funzione mentre scendono le scale che portano alla metro puoi osservare semplicemente degli uomini. Uomini incappucciati in buffi cappelli di lana, il collo avvolto da sciarpe da cui fuoriesce quasi sempre una barba più o meno lunga, più o meno grigia, unico particolare su cui si fissano involontariamente gli sguardi chissà perché improvvisamente imbarazzati di tutti i presenti. E mi capita spesso di pensare con sottile invidia a quelli che si possono permettere di vivere sempre così, in “abiti talari”. Dal pulpito un giovane sacerdote parla alla folla a bassa voce, quasi cantilenando. La sua voce é pulita, luminosa, ufficiale eppure comprensiva. Non é una voce proveniente dalla strada, non sembra la voce di qualcuno che abbia vissuto nei bassifondi. No, questa é la voce di un uomo sempre vissuto fra i libri, nella continenza di una cella. È vergine quest’uomo, mi ritrovo improvvisamente a pensare. Non ha mai avuto a che fare con certe zone buie. La sua non è una voce che lascia spazio a chiaroscuri o ad equivoci, come quella di noi “mondani”. Gli occhi del giovane cercano pazientemente fra la folla qualcuno che raccolga le parole provenienti dalla voce.
L’uomo sacerdote dice alla gente: Cos’è la fede? La fede è un miracolo, non è semplicemente comprensione intellettuale o immaginazione sentimentale. Perché ad un uomo il cuore batte e a un altro no? Perché la fede consiste in un meccanismo inspiegabile, assolutamente personale che non può essere trasmesso ad alcuno. Succede (o non succede) solo con te, fra milioni e miliardi di altre persone. Ma cosa faccio allora io qui, io che non credo? Eppure non ho altra scelta. Dove va un uomo che sa il luogo dove bisogna andare, ma non vuole andarci? O che si reca comunque a incontrare qualcuno, pur sapendo di non andare con il cuore aperto? Anche questo è un miracolo, non andando andare. Io che non Ti credo chiedo a Te di concedemi di crederTi. Chi è che sta chiedendo e come si può interpellare qualcuno che per te non c’è? Voci che cadono nel vuoto, la mia come quella dell’uomo sacerdote. Sguardi che per l’ennesima volta si incrociano senza possibilità di comprendersi l’un l’altro. Che senso ha parlare se proprio la cosa più importante non la si può nominare?
In un angolo uomini e donne in fila attendono che anche per loro si compia il Mistero della Confessione. Posso osservare come il sacerdote si chini all’orecchio del confessante, come a volte poggi una mano sulle sue spalle per confortarlo, altre volte sospiri e si passi la mano davanti al volto. Sempre più stanco e sempre più sorridente, ascolta le nostre lamentele e le nostre sofferenze. Gioia di tutti gli afflitti. Molte delle persone in fila hanno in mano un foglietto. È su quella povera carta che uomini e donne scrivono i loro “peccati settimanali”: numero uno, numero due, numero tre... Qualche anziana signora inforca gli occhiali e rilegge l’esiguo manoscritto, poi aggiunge coscienziosa ancora qualche nota. A volte si fa avanti un bambino e allora si può osservare che il volto del sacerdote si rischiara tutto alla luce di un’anima che non ha fatto ancora in tempo a sporcarsi con la polvere e il fango del mondo.
La liturgia prosegue, parole vecchie di secoli eccheggiano con dignità, solennità e a tratti persino con tenerezza fra le navate della chiesa. Tutti in piedi, poi tutti in ginocchio, di nuovo tutti in piedi. I Sacerdoti benedicono la gente e negli occhi di tutti mi sembra di scorgere una domanda che nessuno é in grado di pronunciare. Una domanda che non può essere formulata. Osservo tutto, partecipo con quanta più discrezione possibile all’evento. Alla fine della funzione mi avvicino come tutti alla tavola chiamata icona e baciandola le chiedo aiuto. Ho visto già tante volte come i sacerdoti si inchinano davanti a quelle tavole, come se le arcaiche, fantastiche figure lì dipinte fossero vive. Invidia e impotenza, ecco i motivi musicali interiori che mi accompagnano all’uscita della chiesa. Nessuno può rispondermi. E io non voglio consolazione, voglio la soluzione dell’enigma. Il segreto di tutte le cose. Orgoglio? Ma se gli uomini vestiti da monaci hanno ragione allora io ho bisogno di questo segreto.
All’uscita della chiesa le mendicanti imbacuccate chiacchierano allegramente tra loro come se tutta questa situazione fosse assolutamente normale e se gli porgi una banconota ti ringraziano con un “Il Signore ti salvi”. Cosa c’è nell’animo di quelle donne? Mi domando. Cosa pensano? Cosa pensano? In chiesa sbircio sempre furtivamente le altre persone, per scorgere in qualcuno un pensiero luminoso o un sentimento che voli verso l’alto. Si vede bene che sono tutti sperduti, e io non riesco proprio a cambiare opinione: lì dentro nessuno capisce cosa sta facendo. Ma tutti si affrettano a nasconderlo prima a se stessi e poi ai propri vicini. Anche io faccio così. Eppure tutto è misteriosamente bello e triste. Ma nessuno sa spiegare perché.
Cammino sperduta come se questa non fosse ormai anche la mia città. La neve continua a cadere e la luce dei negozi mette allegria. I ristoranti e i caffè espongono confortanti menu al loro ingresso. È ancora presto, gli uomini e le donne tornano a casa dal lavoro, i ragazzi e le ragazze sono appena usciti di casa e fumano agli angoli delle strade. La notte non é ancora calata sulla città. Dove andare? Mi chiedo. Mentre scendo le scale della metro mi accendo la sigaretta che desideravo fumare appena uscita dalla chiesa. Ho preferito attendere e allontanarmi un pò perché a volte qualcuno ritiene l’atto offensivo e te lo fa notare con atteggiamento non propriamente caritatevole.
Nei corridoi della metropolitana qualcuno ha già fatto in tempo ad ubriacarsi e ora parla ad alta voce con i suoi compagni di fugace ma concreta allegria. Mentre scendo le scale mobili odo come sempre gli annunci pubblicitari trasmessi dalla filodiffusione. Una voce maschile, sovieticamente positiva annuncia: venite a trovarci alla Fiera ortodossa “Digiuniamo insieme!”. Potrete trovare libri spirituali, icone, film, consultare un sacerdote e naturalmente acquistare prodotti alimentari provenienti dai monasteri e dalle aziende agricole di tutta la Russia... Nessuno sembra interessarsi o particolarmente stupirsi dell’annuncio.
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