Lolita a Teheran, Sherazade a Voghera
Autore: AnonimoMar, 17/11/2009 - 10:04
Di Giovanni Ragonesi
Uno dei passatempi preferiti della signora D. S. è andare a correre a Parco Sempione; sulla via del crepuscolo, accompagnata con discrezione dalle sue bodyguards e a volte da qualche amica, come lei poco truccata per l’occasione.
Nobile attività lo jogging crepuscolare, su questo non si discute; meno nobile, ma tutt’altro che disdicevole, la frequentazione di salotti con corredo di starlette e soubrette e qualche esuberante, ma innocuo, gay da grande fratello. Purtuttavia ci troviamo ad osservare come sarebbe stato più proficuo, sia in termini di umanità sia in termini di intelligenza, se un po’ di tempo fosse stato speso nella lettura di qualche testo che l’avrebbe di certo aiutata a comprendere maggiormente proprio l’argomento che da qualche anno occupa buona parte delle sue fuoriuscite, delle sue prese di posizione e delle sue pubblicazioni.
In ispecial modo sarebbe stato utile vedere che effetti avrebbe prodotto la lettura di “Orientalismo” del compianto ma indimenticato Edward Said. In questo testo lo studioso palestinese smaschera/smonta quei meccanismi mentali, linguistici e soprattutto storici che perpetuano una serie di stereotipi che rendono del tutto falsa, o quantomeno solo in parte autentica, la nostra percezione dell’Oriente, vicino, medio ed estremo.
Di certo, senza buttarla troppo sull’intellettuale, per continuare a vivere su questo piccolo pianeta è indispensabile smetterla di guardare con occhi manichei qualsiasi alterità; smettere di dividere lo scindibile in bianco e nero e distinguere sempre soltanto tra “Io Tarzan, tu Jane”.
L’alterità ci esplode dentro, ci germina accanto. E queste esplosioni e germinazioni si stanno manifestando anche nella narrativa, in maniera sempre più inequivocabile: è di quest’anno il primo caso editoriale nostrano di un autore di origine straniera che scrive in italiano e diventa bestseller. Nicolai Lilin con “Educazione siberiana”.
Nel suo romanzo autobiografico Lilin ci ha raccontato la sua crescita, il paese dov’è nato (la Transinistria, territorio ex sovietico oggi formalmente moldavo), la sua appartenenza alle tradizioni culturali Urka. Lo ha fatto in una lingua interessante che da subito – da ancora inedita – ha incuriosito Goffredo Fofi. Soprattutto ha scritto con onestà di un mondo che ci è sconosciuto e lontano quasi quanto le lune di Giove.
Dopo il suo successo s’è letto qualche articolo qua e là che parlava del fenomeno della nuova narrativa italiana di autori immigrati. Il fenomeno è meno nuovo di quel che sembra, già da un po’ qualcuno lo propone sebbene senza battere troppo sul tamburo: ad esempio nel 2006 quando Lakhous Amara ci ha intrigato, attraverso e/o, col suo “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”; mentre i primi avvistamenti risalgono al 1991, anno di pubblicazione di “Chiamatemi Alì” di Mohamed Bouchane, “Il venditore di Elefanti” di Pap Khouma e “Immigrato” di Salam Methnani.
Ovvio che rispetto ad altre letterature scontiamo un ritardo culturale e sociale e, non in second’ordine, una diversità sostanziale nella storia coloniale. Ovvio che stiamo ancora aspettando i nostri figli della mezzanotte che coi denti bianchi scorazzano tra brick lane alla ricerca di un buddha periferico, ma è importante notare come le acque siano in sommovimento. Le proposte editoriali (quasi sempre piccole o piccolissime) aumentano: abbiamo, non soltanto l’oramai indiscusso Carmine Abate e la celebre Helga Schneider, ma anche Ornella Vorpsi, Dekhis Amor, Cristina Ali Farah, Viola Chandra, Gabriella Ghermanti, Ron Kubati e molti altri che lasciano le spinte autobiografiche, le denunce di pregiudizi razziali o le attitudini alla testimonianza per avventurarsi sempre con più gusto in territori squisitamente narrativi come quelli di Igiaba Scego nel suo “Oltre Babilonia” e di sperimentazioni linguistiche come quelle di Tahar Lamri e di Yousif Jaralla; abbiamo un sito www.letterranza.org; soprattutto abbiamo bisogno di leggere e conoscere e sperimentare queste alterità, queste alternative, questi sguardi trasversali che segnano un ritorno alla narrazione archetipica che arricchisce il vissuto di ciascun lettore.
Non c’è ancora – lo ripetiamo – tra questi autori un Tahar Ben Jalloun, un Rachid O, un Zaimoglu Feridun, tantomeno un Salman Rushdie, una Jhumpa Lahiri o una Zadie Smith, una Monica Ali o un Hanif Kureishi, ciò però non toglie valore a queste proposte di narrativa che ci danno la possibilità se non altro di conoscere delle storie, di vedere certi paesi e alcuni vicini di casa oltre l’immagine da copertina di rotocalco con navi straripanti profughi o CPT in subbuglio, di conoscere altri approcci alla sessualità e al cibo e alla famiglia, altre visioni del sacro, altre percezioni del tempo e considerazioni della natura, altri suoni di tacchi sull’asfalto. L’opportunità di modificare il nostro senso di Cultura, dove per Cultura s’intende, alla maniera di Ortega y Gasset, “Ciò che un uomo ancora possiede quando ha dimenticato tutto ciò che ha letto.”
In altre parole: la possibilità di immaginare e leggere non solo Lolita a Teheran ma anche Sherazade a Voghera.
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